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Da “SUDEST Quaderni”, n. 3, gennaio 2005

Quando ad emigrare eravamo noi: è con questo riferimento che il più delle volte andrebbero affrontate, e capite, le tante storie di migranti che ci sono davanti agli occhi tutti i giorni. Leggendo i giornali, guardando la tv, o incontrandoli per strada, dovremmo più spesso sollecitare la nostra memoria, e confrontare esperienze, situazioni, soluzioni. Sollecitato da brevi cronache, rintracciate sul web come su giornali e periodici, che raccontano oggi di un disagio diffuso e di mille storie di marginalità, sono andato a ritrovare nei nastri magnetici e nelle trascrizioni che conservo le testimonianze dei nostri braccianti, contadini, artigiani che negli anni ’60 e ’70 partirono dal Tavoliere per l’Italia del Nord, la Svizzera, la Germania. Scelgo di non commentarle, ma di giustapporle, come in un flashback cinematografico, alle notizie proposte oggi dai media, ricordando l’utilità del raccogliere ed organizzare la memoria del nostro passato, ma soprattutto di porci il problema di cosa fare oggi rispetto all’evidente anonimato e marginalità a cui costringiamo quanti scelgono (?) di vivere e lavorare con noi.

Il reclutamento e il trasporto.
“Facevano entrare clandestinamente in Italia immigrati kosovari diretti in Germania. Tredici persone sono state arrestate dalla Polizia al termine di indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Trieste. I clandestini venivano spesso trasportati con furgoni con scritte di enti religiosi per evitare i controlli. Per ogni immigrato l’organizzazione guadagnava, secondo gli investigatori, dai mille ai tremila marchi tedeschi”.

”Polizia di Stato.it”, gennaio 2002.

Nicola Gesualdo: “Era il ’70, quando andai in Germania, venne l’”interprete” (un tedesco che veniva a reclutare la manodopera) che stava là ad Andria, nella piazza, che stava cercando operai, insomma disse: “Voi dove volete lavorare? Sopra alla ferrovia, ai vagoni?”. Dissi: “Noi dove stanno i soldi là vogliamo andare. Il lavoro pesante dove sta? Alla ferrovia? E vogliamo andare là”: E andammo… ne eravamo in tre, che gli altri due stanno là e io poi me ne venni. Ne partimmo tre di Cerignola e sei ne erano di Minervino, che stanno ancora là. Perché là stavano i soldi assai, si lavorava, ma si mandavano i soldi. Eravamo quasi solo noi italiani, che poi erano tutti turchi, spagnoli, greci, tutta roba di quelli. Quelli ne stavano assai. E chi li capiva? Sapevamo solo come si diceva “pane”, e altre poche parole”.
Gerardo Grisorio: “Il lavoro lo trovai già da Cerignola. A Barletta ci stava un capo di un treno merci, un sardagnolo che parlava parecchie lingue, sapeva 5 o 6 lingue… Questo prendeva la sua parte, è logico, perché se ti devi portare tante persone nella ferrovia… quello non è che si fregava un milione o due, quello prendeva otto o nove milioni, a portare 10-15 persone, come il mediatore quando si compra una casa”.

Gli alloggi.
“A Foggia sono molti a ritrovarsi in questa disperata situazione. Extracomunitari e barboni e vagabondi, la sera trovano da riposare nei posti più inusuali: nei vagoni dei treni abbandonati, sulle panchine, sotto i portici. Sono rumeni, polacchi, marocchini, tunisini; ognuno con una storia fatta di viaggi, speranze, voglia di lavorare e di sfuggire alla miseria del proprio Paese”.

”La Grande Provincia”, 19 ottobre 2002.

Nicola Gesualdo: “In Germania dormivamo nei vagoni. E ci pagavano la trasferta, siccome noi dormivamo nei vagoni, quella veniva chiamata la trasferta. È stata una vita schifosa. Là niente vita di festa, non è che ti potevi divertire come qua che facevi la festa. Là si chiamavano gli amici, andavamo in una sala da ballo e ci andavamo a divertire. Tenevamo dieci marchi, venti marchi… secondo quello che era… 
In Svizzera ci ha chiamato il fratello di mia moglie, ci venne a chiamare, stava nella fabbrica degli orologi. In Svizzera pagavano loro l’affitto della casa. Dormivano in un baraccone tutto di tavole e lavoravamo e la sera andavamo a mangiare là, a dormire a questo baraccone. Stavano parecchi di Stornarella, noi…”.

Le piazze multietniche.
“La stazione rimane certamente uno dei luoghi di ritrovo più frequentati, forse quello dove si può ancora coltivare l’illusione di ritornare “a casa”. Ma non é l’unico. C’è la centralissima Piazza della Vittoria, frequentata soprattutto dagli immigrati asiatici, o il quartiere del Carmine, dove bazzicano invece gli africani”.

”Il ponte della Lombardia”, ottobre 1999, n.54.

Savino Totaro: “A Porta Genova, Porta Genova era – diciamo così – la piazza del Carmine a Cerignola. Porta Genova – Piazza del Carmine, Cerignola. Tutti cerignolani, cioè cerignolani, andriesi…però sempre provincia di Foggia e provincia di Bari. Che poi andando da altre parti s’incontravano pure, ma lì proprio era il centro, Porta Genova. Porta Genova – la chiazze du Carm’, la chiazze du Dume! Era sempre meglio di Cerignola. Sempre meglio di Cerignola, sì, si capisce. Perché il lavoro lì è un lavoro garantito, non è che oggi lavori, poi devi andare a trovarlo in piazza. Non c’era quel pensiero di dire: ‘Beh, ancora il padrone domani non vuole, non attacca a lavorare’”.

I lavori a rischio.
“…emerge chiaramente come i lavoratori immigrati siano più frequentemente vittime di infortuni sul lavoro: pur rappresentando solo il 3,4% degli occupati in totale, gli stranieri detengono una quota del 9,1% sugli infortuni indennizzati, a fronte del 4,2% relativo ai lavoratori italiani”.
Immigrati a rischio infortunistico in Italia, a cura dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, in coll. con studiosi del Dossier statistico Immigrazione della Caritas, 2004.

Nicola Gesualdo: “Siamo stati alla ferrovia a lavorare. Lavoravamo a mettere traverse, a togliere traverse, linee, tutto. Sulla ferrovia abbiamo scampato la morte, in Germania abbiamo scampato la morte. Che tu mentre lavoravi sulla ferrovia improvvisamente ti sentivi il treno da dietro, perché stavamo con i “macinini” in mano, quelli che fanno tanti rumori, quelli per sistemare le traverse. Quante volte scappavamo davanti al treno, che quello metti che ti arrivava addosso… Lavoravamo sempre di notte, perché piaceva a noi, per prendere qualcosa di più. Noi suonavamo l’allarme, ma fin quando prendevi ilmacinino, ti menavi fuori…”. Interviene la moglie Giuseppina Degregorio: “Che io poi quando l’ho sentito: ‘Tuo marito sai dove lavora?’, ‘Là’, ‘Però quando passa il treno, non sia mai, non si trovano nemmeno i pezzi’. Allora io scrissi: ‘Senti – dissi io – tu ora devi ritirarti, con pane o senza pane, ti stai a casa tua. Non che tu, lontano sia una morte, beh, dobbiamo avere questo scrupolo? Noi stiamo aspettando da un giorno all’altro, niente meno devi morire?!’. E allora io tante lezioni gli ho fatto, dissi che ‘tu te ne devi venire! Tu là stai alla morte. Subito te ne devi scappare, sei stato tanti mesi, ora basta!’”.

I perché di una partenza.
Nicola Gesualdo: “Io per farmi questa casa sono stato fuori nazione, che se no qua mai si faceva la casa. Io sono stato tre anni e mezzo in Svizzera e otto mesi e sette giorni in Germania, che lavoravo sopra alla ferrovia. A Cerignola andavo in campagna, facevo il contadino. Poi mi decisi, presi la decisione e me ne andai in Germania. Mi piaceva stare là, perché là stanno più soldi di qua. Fatta la raccolta delle olive, all’uva, non ci sta più niente qua. Oggi che sono tornato, un po’ alla campagna, un po’ in mezzo al Duomo qualche noleggio, la cosa che è, è inutile pensare. Troviamo da andare a raccogliere le olive, andiamo a raccogliere le olive; dopo che finiamo le olive ci mettiamo a fare qualche noleggio di contrabbando, diciamo ‘contrabbando’. E che dobbiamo fare?! Dobbiamo portare la famiglia avanti, senza andare a rubare, questo è l’essenziale. Tutti i lavori facciamo. Devi andare alla piazza per trovare la giornata per andare a lavorare. Come era prima. Chi tiene i cristiani a lavorare – l’azienda – è un fatto. Chi va all’azienda e chi va cercando in mezzo alla piazza. Chi non va all’azienda va cercando alla piazza, il lavoro quando lo trova e quando no.
Gerardo Grisorio: “Il fatto della Germania è una vita fetente ed io se dovessi tornare a farla di nuovo non lo farei. È una vita che mi sono creato dal ’69, sono sett’anni che sono là. Io facevo il contadino, non riuscivo a mettere una lira da parte per farmi una casa, un appartamento…e chi lo doveva pagare?! Quando facevi la giornata e quando no… Io me ne sono andato perché avevo bisogno di soldi e per farmi una casa, perché non è che posso lasciare mia moglie qua, anch’io mi sento male quando me ne vado e certe volte mi scappavano le lacrime, specie i primi giorni che andai là, perché mi vedevo brutto. Oggi sono riuscito a fare una casa, un appartamento e me ne voglio venire. Faccio quest’inverno e me ne torno a casa. Sono riuscito a farmi una casa, un appartamento grezzo, che un domani dirò a mio figlio: ‘Finiscilo tu, così ci puoi abitare dentro’”.

Interviste raccolte a Cerignola (da Giovanni Rinaldi, Paola Sobrero, Alberto Vasciaveo) nell’ambito di un’inchiesta del 1976-’77, per conto dell’EMIM (Emigrazione/Immigrazione Centro Studi) di Roma, diretta dal prof. Giorgio Baratta dell’Università di Urbino, in collaborazione con la FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici).