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Il paese dei “ribelli”
Servizio di MARIA ANTONIETTA MACCIOCCHI
(“Noi donne”, a. VII, n. 15, 13 aprile 1952)

Vorremmo dire alle donne di S. Severo che siamo fiere di loro per come si sono trasformate da avvilite stanche donne in combattenti meravigliose, aprendo a tutte le donne del Mezzogiorno una strada nuova, una certezza di vittoria.

S. SEVERO, aprile
Il treno corre attraverso il Tavoliere. La piana sterminata, così regolare e ben livellata, con il suo tenero giovane, fresco grano sembra quasi una immensa sala da ballo. Credetemi, bisogna arrivare qui per capire cosa è la primavera! E si vorrebbe scendere dal treno, distendersi sull’erba gentile e restarsene fermi a guardare il cielo, che poco più lontano abbraccia anche il mare. Ma non si può. S. Severo arriva quasi subito, assiso nel bel mezzo della verde piana e lì si scende, perché la nostra meta è proprio questa: S. Severo, il «paese dei ribelli».
Così, almeno, l’ha definito il più noto Pubblico Ministero della Puglia, nell’arringa contro i 102 braccianti di S. Severo, che da due anni abitano le carceri di Lucera. Noi eravamo stati il giorno avanti a Lucera, nel Tribunale, avevamo fatto conoscenza con i braccianti incarcerati: centodue uomini e donne, in parte chiusi nelle gabbie, in parte fuori, quasi la popolazione di un paese, una massa di gente forte, robusta, onesta che tu non ti spieghi perché fosse dietro le sbarre.
Il modo di comportarsi delle donne ci aveva impressionato: i loro modi tranquilli, il parco gestire, la maestà che emanava dalle loro figure ci sembravano tanto eccezionali, che l’indomani volemmo partire per il loro paese, visto che nell’aula non avevamo potuto scambiare con loro che poche parole, per conoscere meglio la vita di questi luoghi e di queste donne.
Se anche a voi che leggete capiterà un giorno di andare a S. Severo, non rifiutatevi di visitare lo Stabilimento delle immondizie e l’abbandonata fabbrica Hofmann: queste due visite, anche se vi sconvolgeranno per lungo tempo, vi permetteranno di afferrare nel più profondo la miseria senza confini dei braccianti pugliesi.
Complessivamente, in questi due luoghi, abitano 150 famiglie di contadini che lavorano 100 giorni all’anno, a 500 lire al giorno: sono braccianti ma fanno gli edili, i pastori, gli scopini e qualunque altro mestiere. Le donne li aspettano a casa, la sera, per aver quel poco danaro che hanno guadagnato e subito corrono trafelate per acquistare il pane.
Nello Stabilimento delle immondizie, si abita nelle celle di ferro dove si chiudevano, una volta, i rifiuti. Al posto dei rifiuti ci si sono messi gli uomini con le loro mogli, e nessuno dentro può tenere la testa alzata. Fuori delle celle vi sono numeri scritti in vernice rossa per distinguere le abitazioni l’una dall’altra e magari c’è pure scritto il nome dell’abitante.
Ognuno apre la sua cella davanti a noi per farcela vedere, senza pudore. Arriva per ultima una donna piccola, magra, con una chiave, ed apre la sua.
– Non ha figli? – domandiamo.
– È fresca sposa! – dicono le altre, e ridono. Ha dovuto aspettare due anni per sposarsi perché non teneva il palazzo. Ma ora lo tiene… – e fanno cenno alla buca che si spalanca dietro la porta.
Una famiglia abita nel vecchio forno, proprio nel forno, dello Stabilimento. Dentro c’è una donna, un cane, un bambino con gli occhi ammalati, e una grande cuccia, dove la notte si coricano sei persone. Al muro, per ornamento, v’è appesa una scarpa cittadina, con un bel tacchetto sottile, e al suo lato, unica suppellettile, si vede la tromba di ottone, immensa, di un grammofono sgangherato, che, in quello squallore, sembra animato da una misteriosa vita.
– Non suona più? – chiedo alla donna.
Lei si diverte e certamente mi prende in giro, quando mi risponde: – Ci mancano solo le puntine!… -.
Ai muri di tante altre case troviamo i ritagli di «Noi Donne», le belle figure di nostri bambini felici, le donne sovietiche che sorridono dai muri e sono in queste case, come le vecchie immagini sacre, speranza di un mondo migliore.
Diamo una cioccolatina a un bambino e scopriamo che in Puglia c’è un detto popolare che dice: «i dolci fanno venire i vermi ai bambini!». Nessuno ci crede, e una giovane contadina ci spiega che esso è stato messo in giro dagli agrari secoli e secoli fa, per non far desiderare ai braccianti dolci per i loro figli.
E aggiunge: «Un altro, allora, ce n’è di proverbio, più cattivo ancora, che dice che mettere l’olio sul pane fa venire i pidocchi in testa. Se i braccianti vogliono levarsi i pidocchi, non è che debbono uscire dalle tane dove abitano, ma mangiare pane asciutto!», conclude con ira dando uno sguardo circolare alle celle.
Se non si conosce S. Severo ci si potrebbe meravigliare della dignità e del coraggio che emana dalle donne che sono state arrestate due anni fa sotto l’accusa di insurrezione armata contro lo Stato. Ma andare a S. Severo significa ricollegarsi con loro, con le ragioni più profonde della loro lotta.

Ascoltate i fatti. Forse voi non sapete che gli agrari in Puglia e nel Mezzogiorno ricevono il bracciante solo nella stalla: lì viene ingaggiato e pagato ogni sera. Nella casa del padrone sale il falegname, il muratore, lo scarparo, ma il bracciante mai. E altrettanto è per la sua donna, che è valutata come una bestia da soma e pagata peggio, quando lavora tanto che tutti sanno che un mulo vale più di una donna, nel Mezzogiorno.
La miseria l’abbiamo vista, i rapporti umani sono questi; che meraviglia se la lotta contro i padroni cominciò nel 1946, duramente? Nel ’49, ’50, arrivò al suo punto massimo e gli agrari, che si vedevano costretti a concedere le giornate di lavoro, prepararono insieme alla polizia la provocazione del 23 marzo 1950. Finsero che i braccianti erano pronti all’insurrezione, perché questi erano scesi in sciopero generale: e a S. Severo, allora, si concentrarono reparti interi di polizia, il paese fu assediato dalle autoblindo, furono arrestati centinaia di donne e di uomini. E iniziò la dura segregazione, per i braccianti più coraggiosi, e oggi dura ancora il loro processo, in un’aula di Tribunale, con tanti distinti signori in toga, che si alzano a parlare con forbito linguaggio contro di loro e i carabinieri che aprono e chiudono le manette in cui sono serrate le loro robuste mani di lavoratori.

Illustrazione di Bernardo Leporini.

Rosa Campanaro tra le diciassette donne arrestate, che siedono composte nell’aula del Tribunale di Lucera, è l’unica tutta vestita di nero, con un velo che la copre fino a terra, quasi un manto, e dal quale si intravvedono due occhi scuri e tristi. Durante i due anni di prigionia le è morta una figlia di 16 anni, una «ragazza quasi da marito», e il padre. Non l’ha potuta nemmeno vedere sul letto di morte, sua figlia, che pure lei aveva fatto, con il suo sangue, e il suo lungo e paziente amore. Altre sciagure sono capitate alle donne, alle loro famiglie, ai loro figli, in questi mesi di carcere. Ma sono tutte come Rosa Campanaro, non si sono piegate, non sono divenute vili e piagnucolose. Nel carcere, lo sapete, l’avete sentito dire, hanno imparato a leggere e scrivere; con le mani indurite dai calli hanno imparato a tenere la penna e quando i segni neri neri sono divenuti parole, hanno scritto frasi d’amore e di speranza ai mariti, ai figli, alle compagne.
Nei giorni in cui questo giornale uscirà forse il processo sarà chiuso [il processo termina il 5 aprile 1952, infatti, con l’assoluzione di quasi tutti gli imputati, ndr], forse si sarà riusciti a salvare i braccianti dalla pena che il pubblico ministero ha chiesto per loro (425 anni di carcere) e le madri saranno tornate ai figli.
O forse la «giustizia» dei borghesi, degli agrari, riuscirà a strappare la punizione assurda per coloro che si sono ribellati alla vecchia schiavitù? La giustizia borghese può macchiarsi anche di questi crimini, perciò noi non lo sappiamo.
Quello che vorremmo dire alle donne di S. Severo è che noi siamo fiere di loro, per come si sono trasformate da avvilite e stanche donne che erano, in combattenti meravigliose. Che noi rendiamo loro grazie per tutto ciò che ci hanno insegnato, per come hanno schiuso a tutte le altre donne del Mezzogiorno, una strada nuova di progresso e ci abbiano dato la certezza della vittoria.

(Fonte: “Noi donne”, n. 15 del 13 aprile 1952 – Noi Donne Archivio Storico online)

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Leggi anche in questo blog gli altri reportages da “Noi donne” sull’accoglienza familiare dei bambini:
Migliaia di bimbi del nord sono accolti in Emilia (1945, dicembre)
I “bracciantini” (1949, Firenze accoglie i figli dei braccianti emiliani)
1949. 800 bambini campani attraversano l’Italia sul “treno della felicità”
Cinque donne sul Delta… così vi parlano (1951, “in difesa dei bimbi del Delta”)
I bimbi del Polesine (1951, 15.000 famiglie offrono ospitalità ai piccoli alluvionati)
Le donne di San Severo (1952, il reportage di Fausta Terni Cialente)
I ragazzi di Villa Perla (Genova 1954, il racconto di Maria Antonietta Macciocchi)

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Il libro con le storie dei bambini dei “treni della felicità:
Giovanni Rinaldi, C’ero anch’io su quel treno. La vera storia dei bambini che unirono l’Italia, Solferino, 2021