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Nel 2014 realizzai il cortometraggio Non voglio parlare della guerra. Era una riedizione, rimontata e arricchita da immagini di repertorio d’epoca, delle riprese frutto del progetto “Testimoni della memoria” del Ce.Se.Vo.Ca. (Centro Servizi per il Volontariato di Capitanata), in collaborazione con l’AUSER di Foggia.
Il cortometraggio racconta dalla viva voce di tre testimoni diretti dell’epoca, fonti orali dirette – Mario Napolitano (cugino di Nicola Ugo Stame, il tenore-partigiano foggiano trucidato alle Fosse Ardeatine), Arnaldo De Cristofaro e Mario Muscatiello – l’estate del ’43 e i bombardamenti alleati che devastarono la città. Le voci di un giovane soldato che rientra stremato dalla Libia e non riconosce la sua città distrutta e quelle di due bambini, inermi e atterriti dall’orrore dei bombardamenti e mitragliamenti dell’aviazione alleata. La memoria di una “fine del mondo” vissuta in prima persona e forse non ancora cicatrizzata, che si rivivrà quasi all’infinito nelle notti insonni “per anni e anni”.

Bambini sotto le bombe. Foggia ‘43.
Il racconto di Mario Napolitano, Arnaldo De Cristofaro, Mario Muscatiello
(dalle interviste del cortometraggio)
a cura di GIOVANNI RINALDI

Mario Napolitano
1939. Ci siamo imbarcati a Napoli col piroscafo Toscana. Eravamo 14.000 militari. Siamo sbarcati dopo due giorni a Tripoli. Da Tripoli siamo stati portati a Gargaresc, di sera. Montammo le tende, ma non avevamo acqua.
Dopo alcuni mesi che stavamo lì, siamo stati inviati al fronte, a Gedabia, Bengasi, Tobruk, Bardia. E abbiamo cominciato le avventure della guerra.
Non ti dico…
Non voglio parlare della guerra, Perché non voglio ricordare, Perché mi vengono solo i brividi, a ricordare. Siamo partiti in migliaia e migliaia, siamo ritornati in pochi. Perché mentre si facevano le operazioni di guerra, che si andava contro il nemico, tutti gli amici che sono partiti con me cadevano. Tu li vedevi cadere e proseguivi. Non potevi fare diversamente.
Poi è passato il tempo. 1945, siamo stati liberati, dalle truppe inglesi. E abbiamo fatto ritorno a Foggia. Non ti dico, quando sono ritornato a Foggia. Non capivo. Dicevo, Ma questa è Foggia? Non c’era più niente. Alla prima persona che incontrai, che conoscevo da ragazzo, dissi, Scusa Peppì, mi fai sapere come sta tuo fratello. Rispose, È morto, nel bombardamento del 19 agosto di due anni fa.
Foggia non era più niente. C’erano ancora macerie, il disastro. Io non mi orientavo più, le strade non c’erano più, i palazzi che conoscevo… Io ricordavo un palazzo a fianco all’Epitaffio, il monumento di via Manzoni, dove abitava Ugo Stella, u sgubbatille, lo chiamavamo, il gobbo. Quello ha fatto tremare Foggia, perché era cattivo. Ha fatto arrestare un sacco di gente. Li ha mandati tutti quanti alle acqueverdi (così chiamavano il confino di polizia alle isole Tremiti). Chi non era fascista lui lo denunciava. Era il terrore di Foggia, almeno fino a quei pochi anni che l’ho conosciuto. Quindi chiesi, Qua abitava u sgubbatille, dove sta ora? Nessuno lo sapeva.
Ho ancora in mente i disastri che vidi, in ogni strada c’erano rovine di palazzi che non esistevano più, le piazze sparite. Era il 1945, avevano po’ sistemato, ma pensavo a quelli che erano qui nel 1943.

1943, Arnaldo De Cristofaro aveva otto anni
Il 22 luglio era un giorno, me lo ricordo bene, molto caldo e giocavo con altri bambini davanti al teatro Giordano, quando suonò l’allarme. Lo conoscevamo già bene, anche se bambini. Lo conoscevamo bene il suono dell’allarme, quando arrivavano gli aerei. Allora io scappo via e vado a casa. Lì vicino al teatro c’era un cinema. Io mi infilavo nel cinema e uscivo dall’altra parte, dove abitavo io. Vado a casa, vado a rifugiarmi a casa, perché arrivano i bombardamenti, arrivano gli aerei, mi dicevo. Corro a casa. Se non che, arrivato a casa comincia lo scoppiettio… lo scoppiettio?! I rumori, enormi! delle bombe. Proprio lì ci fu una distruzione totale delle case e io ricordo solo che a un certo momento sentii mia madre che gridava U criatùre, u criatùre! perché ero finito sotto le macerie. Mi ha tirato fuori e sanguinavo dalla testa, infatti ne ho ancora i segni.
Allora lei si strappò un pezzo della sottana e me lo avvolse intorno alla testa. Uscimmo fuori, c’era una nuvola fumosa… sembrava nebbia, ma era così acre. Mi portò verso via Saverio Altamura, dove c’erano dei militari. Un soldato mi prese in braccio e a piedi, correndo, mi portò all’ospedale. Arrivati lì salimmo una scala, alta e ripida, che portava a uno stanzone. Non vi dico che cosa ho visto in quello stanzone. La prima vista era una ragazza, una donna, giovane, con una gamba tutta spappolata. Io l’ho ricordato per anni questo fatto qua. Era una stanza grandissima con tanti feriti stesi a terra. Chi piangeva da una parte, chi dall’altra e i medici cercavano di accudire chi potevano. Mi presero, mi misero in un angolo… evidentemente la mia ferita non era tale da preoccupare troppo i medici, però perdevo sangue. Ho ancora il segno qua, sulla tempia! Qualcuno mi fasciò la testa.

Mario Muscatiello aveva dodici anni
Io andavo in bottega di fronte all’Epitaffio. C’era una falegnameria, dove io imparavo il mestiere. Da quando avevo dieci anni. Feci sei anni di falegnameria. Era il 22 luglio 1943. Si attaccava a lavorare la mattina alle sette, nelle putéche, le botteghe degli artigiani. E abbiamo iniziato la bella giornata.
Invece arrivò il cataclisma… l’apocalisse, dalle nove e mezza in poi.
Cominciarono a suonare l’allarme, con insistenza, con insistenza. Io ero lì davanti alla bottega. Ho visto centinaia e centinaia di persone che scappavano tutte alla chiesa vecchia, in quei vicoletti verso la piazzetta vecchia, la prima piazzetta di Foggia. E non si è capito più niente! Fecero sei sette ondate, andavano e venivano, gli aerei.
Nelle prime ondate siamo stati tutti chiusi in bottega, tutti ammucciati, nascosti. Ma la cosa si aggravava sempre più, vedevamo centinaia di persone che scappavano da destra e da sinistra.
Il mastro ci disse Mo c’ammucciamo sotto al bancone! E ci siamo nascosti sotto il banco di falegnameria. Ma con gli scoppi delle bombe e delle mitragliatrici… io mi sono impaurito e sono scappato dalla bottega.
Dall’Epitaffio all’Arco di Porta Grande sono non più di 150 metri. Avrò trovato più di 50 morti, per terra. Un’impressione terribile. Palazzi che si muovevano… era una cosa indescrivibile, terribile. Tanti morti, come tante galline, per terra. Allora mi sono impressionato e sono tornato alla bottega.

Arnaldo
La sera mi riunii alla famiglia e a piedi… sì a piedi, coi carretti, andammo verso Biccari.
Io, che ero più piccolo, andavo con mia nonna, che a sua volta trascinava una figlia che era handicappata. Quindi immaginate un poco. A Lucera trovammo delle macchine e ci portarono a Biccari. A Biccari ci accolsero bene, ci dettero da mangiare, ci dettero del pane, del cibo e ci fecero sistemare in una scuola all’ingresso del paese. Ci portarono un po’ di cibo. Così terminò quella brutta giornata del 22 luglio 1943.

Mario M.
Al pomeriggio, si erano calmate un po’ le acque, ci hanno messo sui pulmann, eravamo trecento persone, e ci hanno trasferito. Prima tappa: San Giovanni Rotondo, dove sta Padre Pio. Noi a San Giovanni eravamo in sei, papà era riuscito ad acchiappare i più piccoli, con mamma. La mia famiglia si era sparpagliata, perché su undici persone, sei ci trovammo da qua e altri cinque si trovarono dalla parte opposta, a Montaguto, a Cerignola. Ci siamo rivisti e riuniti solo dopo cinque mesi.
Ci hanno fatto scendere tutti in piazza e hanno chiamato la popolazione: Chi vuole accogliere qualche sfollato? Chiesero di ospitare almeno i criatùre, i bambini, almeno per una sera, farci dormire, darci un po’ di pane. Così noi bambini ci sparpagliammo tra le famiglie, e ci hanno accudito.
Fortuna ha voluto, ché avevamo trovato una bella signora, di quelle signore antiche, con quelle vesti a montagna. Questi tre ragazzi me li prendo io, disse la signora. Eravamo: io, mio fratello Vittorio e Bianca, mia sorella. Siamo andati a casa della signora. La gentilezza! la prima cosa che ci ha detto: Là c’è un bacile, lavatevi le mani. Dopo lavate le mani, ha preso una pagnotta, di quelle grandi come un treno, e col coltello ci ha tagliato tre fette di pane che potevano essere più di mezzo chilo a testa. Ci ha messo il pomodoro sopra e ci siamo mess’a magnà. Ame sciute ind’a carruzzella! (come se ci avessero regalato un giro in carrozza) ci sentivamo in paradiso! Era il primo pane che vedevamo. Dopo, ci ha fatto rilavare le mani: Adesso andate a dormire. In casa aveva un tavolato, sul tramezzo, all’antica, di quelli che si saliva con la scala di legno. Ci ha fatto salire lassù. Su quel tavolato c’era un materasso enorme, pieno di paglia dei palanghille, di foglie di granturco. Ci siamo tuffati su quel materasso! per la stanchezza ci siamo lanciati in questo letto… Ci siamo svegliati la mattina!

Arnaldo
Quello che ho visto quel giorno, l’ho sognato per anni e anni e anni! Sinceramente era una cosa terribile, nei sogni, vedere le ossa, la carne maciullata. Una cosa triste. Adesso che sono ottuagenario, che ho ottant’anni – allora ne avevo otto -, sono un po’ scemati questi ricordi. Però i film in televisione, di guerra, non li vedo, me ne vado. O spengo o cambio. E me ne vado.


La recensione di GEPPE INSERRA per la prima proiezione pubblica:
La memoria ritrovata: al Festival del Cinema indipendente l’originale esperimento di Giovanni Rinaldi
(dal blog Lettere meridiane, 31 marzo 2014)

Il web è memoria che si sedimenta, giorno dopo giorno. Certo, la memoria digitale è cosa altra rispetto alla memoria espressa dagli oggetti (Baudrillard sosteneva che gli oggetti sono memoria sedimentata) ma riesce pur sempre a custodire – e con ogni probabilità a rendere eterne – le tracce del tempo.
Pensate al libro. Il web non potrà mai custodire un libro di carta. Può dirci però dove sta fisicamente. Gestire le procedure necessarie per chiederlo in prestito oppure per acquistarlo. In molti casi, può fornircene una versione digitale, che possiamo a nostra volta stampare oppure semplicemente consultare sullo schermo.
L’avvento della memoria digitale postula la necessità di un rapporto nuovo dei bit con la memoria, per così dire, analogica soprattutto in riferimento a materiali (come le immagini, i video, la musica) che si prestano ad essere prodotti e distribuiti con la stessa efficacia con modalità sia digitali che convenzionali.

Il Festival del cinema indipendente ospita [marzo 2014, ndr] – nell’ambito della commemorazione del Settantesimo anniversario dei bombardamenti su Foggia – un esperimento assolutamente originale, sul quale varrà la pena riflettere, per verificare la possibilità che possa venire replicato in altri contesti. Può diventare un modello sul quale investire, anche per altri contesti.

Formalmente si tratta della presentazione del breve documentario Non voglio parlare della guerra, in cui l’autore, Giovanni Rinaldi, ha raccolto i racconti di tre testimoni oculari della tragiche giornate dell’estate del 1943 (Mario Napolitano, Arnaldo De Cristofaro e Mario Muscatiello). Il montaggio è scarno, la macchina fissa, poche didascalie a contestualizzare le testimonianze, il tutto con notevole rigore formale e stilistico.
Cos’è che rende tuttavia il documentario un esperimento importante? L’autore è uno straordinario cercatore di memoria. È stato il primo a organizzare sistematicamente la raccolta di documentazione riguardante la cultura bracciantile. Ha fondato Casa Divittorio a Cerignola. Ha registrato e raccolto tantissimi documenti di cultura immateriale. 
Giovanni Rinaldi ha fermato l’attimo fuggente con tantissimi mezzi: la macchina fotografica, il registratore, adesso la videocamera. Nel documentario intervista tre testimoni di una certa età, come lo sono tutti quelli che hanno vissuto quelle giornate, e sono ancora oggi viventi. Se non l’avesse fatto, molto probabilmente quei ricordi sarebbero andati dispersi.
L’intervista è stata propiziata dall’intenso lavoro che hanno svolto a loro volta personaggi come Raffaele De Seneen e Vittorio Cucci, associazioni come l’Auser e la rete Le Radici Le Ali, che hanno lavorato parecchio sulla rievocazione di una pagina così amara ma così topica della storia cittadina.
Non voglio parlare della guerra viene insomma fuori dalla fortunata convergenza di sensibilità diverse, ma tutte orientate al recupero di quella che definirei memoria a rischio, perché custodita dai ricordi dei testimoni che diventano, per ragioni anagrafiche, sempre più radi.

Il web potrebbe svolgere una preziosissima funzione di enzima, favorendo altre positive convergenze come quella che ha portato al documentario di Rinaldi. D’altra parte, l’ottimo lavoro svolto dai gruppi del social network che raccolgono immagini, documenti e tracce di questa memoria a rischio significa che vi sono tante altre sensibilità pronte a impegnarsi. I tempi sono maturi per fare rete. Sul serio.