Il racconto *
Doveva essere il novembre del 1917 o del ‘18, io ero bambino, forse era il ’19, comunque prima del fascismo. Qui a San Nicandro Garganico avevamo un capopopolo, prima socialista e poi anarchico rivoluzionario, Emanuele Gualano. Una sera, Gualano, percorse le strade del paese soffiando forte in un corno, come un banditore, e svegliando la popolazione.
A quel tempo, nel nostro paese, per gli usi locali, operai, braccianti e piccoli contadini senza terra, avevano il diritto di raccogliere le olive nei giardini vicini al paese fino al giorno di TuttiSanti, ma non oltre. Allora i più poveri così campavano, potevano andare su quei terreni per raccogliere un po’ di olive ancora acerbe o un po’ di frasche per il fuoco. Una volta passato il due novembre, però, non si poteva più e i terreni tornavano di esclusivo sfruttamento da parte dei proprietari terrieri.
Quella sera di novembre inoltrato, verso mezzanotte, Emanuele Gualano girò per tutto il paese radunando la gente più povera, gridando davanti alle porte chiuse dei pianterreni: Chi vuole andare a raccogliere le olive? Alzatevi! Seguitemi, andiamo tutti insieme sui terreni sopra Zincone!
La gente al buio uscì dalle case e pian piano divenne folla. Io avevo sette otto anni, non avevamo nemmeno il pane. Tutti si svegliarono e uscirono per strada. Ci radunammo a migliaia, uomini donne bambini e ci incamminammo verso i terreni sopra Zincone. Al buio brillarono centinaia di fuochi accesi con le frasche, era una scena bellissima, tutta la gente riunita in attesa dell’alba.
Fece giorno e con le prime luci Emanuele Gualano e altri suoi compagni ci guidarono verso i giardini. Nel frattempo qualcuno fece la spia avvisando i carabinieri, che arrivarono immediatamente con quattro cinque camion. Noi eravamo più di mille, avevamo già raccolto qualche sacco di olive. Allora Gualano si portò avanti alla folla e salì su una maceria di pietre. Tutti noi ci radunammo intorno a lui per ascoltarlo. Si rivolse ai carabinieri con belle parole: Potete andarvene, perché questo che vedete è pane, qui noi cerchiamo il pane, non cerchiamo nient’altro. All’improvviso, dal mare di persone che lo attorniavano, scappò via una lepre. Un giovane, con una mazza, al volo la colpì. Emanuele Gualano, allora, prese la lepre dalle mani del giovane e si avvicinò al maresciallo dei carabinieri che lì accanto osservava in silenzio: Prendila, vai a mangiare questa lepre, perché noi qua, noi veniamo a cercare pane, solo pane!
Belli quei tempi! Noi vivevamo senza pane, il pane non esisteva. Quando ero ragazzo, a casa non lo trovavo mai, pane a casa non lo abbiamo mai visto, come non esistesse. Che società miserabile! Poi piano piano arrivarono anche i fascisti. E con i fascisti rimanemmo ancora senza pane.
Ma torniamo a Gualano. I carabinieri al momento non intervennero e sembrarono ritirarsi. Allora Gualano, che guidava la folla, si diresse verso una strada diversa da quella percorsa nella notte, ma proprio su quella strada li trovammo appostati, i carabinieri, pronti allo scontro. Non lo dimenticherò mai, uccisero un altro padre di famiglia, un bel giovane.
Io, bambino, ero riuscito a raccogliere un sacchetto di olive, a casa eravamo senza pane e quelle olive non le avrei lasciate nemmeno se mi uccidevano. Allora mi lanciai, nel parapiglia, verso un canale ripido che correva tra due vigne e scendendo veloce dentro alla fratta di compare Michele, raggiunsi, sconvolto, casa mia. E le olive ero riuscito a salvarle!
Che tempi, che società di gente poveretta. Non c’era niente, nemmeno la coscienza. Non so da cosa dipendeva, eravamo più ignoranti, certo. Eravamo rassegnati, dicevamo così è fatto il mondo, perché non sapevamo il male da dove veniva, il male chi lo faceva.

Poi da ragazzo divenni bracciante. cercavamo il lavoro in mezzo alla piazza del paese e poi andavamo a lavorare nelle masserie all’uscita del sole, sui campi, e potevi smettere di lavorare solo quando il sole era calato. Di notte dormivamo nelle mangiatoie delle bestie, tra cimici pulci, senza pulizia. Ma io e i miei compagni eravamo gente dritta, veramente! Ci facevamo rispettare in quella società di cornuti. Sapevamo cantare e così riuscivamo a stare allegri, come se la miseria non ci riguardasse. Si suonava, si cantava, si rideva, niente pane si teneva. Era proprio l’ignoranza che ti faceva stare contento. Qualche volta, tra noi compagni dicevamo Ma possiamo fare una vita così!?
Crescendo mi feci giovanotto e andai a padrone da un grande proprietario di terre, un certo Don Carlo Z.
Aveva un brutto vizio, Don Carlo, la sera mi chiamava per divertirsi. Avevo la pelle molto scura e allora lui faceva: Chiamate a Nerù – mi chiamava così – chiamate a Nerù! Finito il lavoro, appena calato il sole, si tornava in masseria che era buio, e con gli altri braccianti si mangiava quel poco che ci davano, in un grande stallone. Quasi ogni sera, dal balcone della casa del padrone, sentivo urlare Chiamate a Nerù, chiamate a Nerù!!! Uscivo dallo stallone e chiedevo Signoria, che vuole? E lui Esci, muoviti, vai in mezzo all’aia! Allora fumavamo le Macedonia, le sigarette. Il suo divertimento – solo a ricordarmelo gli sputerei ancora in faccia – era prendere tra le dita una sigaretta, lui in alto sul suo balcone… noi sotto, sull’aia, eravamo più di cinquanta sessanta braccianti, lavoravamo su terreni di 400, 500 ettari. Don Carlo si affacciava, con la sigaretta tra le dita, la lanciava sul gruppo e godeva, godeva nel vederci fare a botte per acchiapparla al volo: un macello! uno sull’altro aggrovigliati.
Una sera di quelle, con un mio amico suonatore di chitarra, ce ne stavamo un po’ discosti, appoggiati a un muro, non partecipavamo alla zuffa per la sigaretta lanciata dal balcone. Nerù, mò ti voglio vedere in mezzo agli altri, muoviti! Gli risposi Signoria, devo lavorare, potrei farmi male. Lui dal balcone: Ti voglio vedere in mezzo agli altri, capito?! Guarda: stavolta butto il pacchetto intero… E gettò un pacchetto intero di sigarette. La combinazione volle che il pacchetto rimbalzò sulla testa del figlio di Scalofone, che era un tipo abbastanza alto, e me lo ritrovai tra le mani. Dal balcone don Carlo gridò E no! Tavola e gioco, tavola e gioco! Che vuol dire ‘così non vale’. Se volete il pacchetto dovete azzuffarvi, tutti assieme. E ci obbligò a riportarglielo indietro.
Nerù, allora mò cantaci una canzone! Sapevano tutti che ero bravo. Tra me pensai questo la deve smettere tutte le sere di sfottermi e decidere lui quando devo cantare, ero stanco per il lavoro e questo sfotteva. A quei tempi andava in voga la canzonetta “Don Carluccio Martelluccio”, lui si chiamava don Carluccio e la canzone si chiamava proprio così. Allora, chiesi al mio amico di prendere la chitarra e gli dissi Suonala in fa! E quello dron dron dron…
Je songhe don Carlucce Martellucce
V’agge a dì ca songh un prjme ciucce
Na matin pe na cantat’e galle
È menute na signurina e m’ha squacciat’u calle
L’hanne squacciate u calle a don Carlucce…
Licenziato, vai via! Si era accorto che lo sfottevo. E ordinò a un guardiano di accompagnarmi fuori dalla masseria, io avanti e quello dietro, fino alla strada, al buio. Quando ero già lontano, mi raggiunsero con una giumenta e mi dissero di tornare. Don Carlo mi tormentava tutte le sere, tutte le sere! non finivo di mangiare e già mi chiamava, dovevo uscire fuori e soddisfarlo.
Era un cretino, un cretino proprio, con un panzone grosso…
* Dall’incontro, nella sua abitazione, con Giuseppe Russo, detto Trippetta, bracciante e muratore, nato nel 1910 a San Nicandro Garganico, presenti Paola Sobrero e Alberto Vasciaveo, maggio 1977