Lo scorso 4 marzo ero a Cesenatico per la presentazione del mio libro “C’ero anch’io su quel treno” organizzata dalle attiviste dell’Udi (Unione Donne in Italia). Al termine della serata, dopo numerosi interventi, presentazioni video e testimonianze dirette che raccontavano altre e nuove storie dei bambini ospitati nelle campagne dell’entroterra, un signore, che non era finora intervenuto, ma sempre rimasto in disparte, si avvicina e mostrandomi una cartellina contenente dei fogli dattiloscritti e una fotografia mi fa: “Porto i saluti e i complimenti di mia madre Rosetta… che sulla porta di casa mi ha pregato di farti. È lei che ha letto il tuo libro e che me lo ha passato. Sono tanti i ricordi che la lettura ha risvegliato, in lei e in me. Mi piace lasciarti quel poco che è rimasto, pochissimo: una foto, una lettera e qualche ricordo”. E mi porge la cartellina pregandomi di darle un’occhiata, appena ne avrò il tempo. Il signore si chiama Pietro Corbari e nella cartellina ha raccolto un’altra delle storie dei “treni della felicità”, storie apparentemente simili le une alle altre, ma che mostrano sempre tratti di unicità e piccole scoperte che perfezionano lo sguardo e la possibilità di analisi di questo immenso mosaico collettivo.
g.r.
Egr. Giovanni Rinaldi
Mi chiamo Pietro Corbari e vivo a Santerno, un paesotto vicino a Ravenna. Siamo più o meno coetanei. Ho letto e apprezzato il suo libro C’ero anch’io su quel treno che mia mamma mi ha passato. Lei, mia madre Rosetta, è un’arzilla 92enne appassionata e accanita lettrice e quest’inverno le è stato regalato il libro che tu hai pubblicato. Il volume le è stato regalato da un nostro vicino che sapeva di un’esperienza che la mia famiglia paterna ha vissuto sia durante la guerra, ospitando prima una famiglia di Ravenna, sfollati dalla città per via dei bombardamenti, sia accogliendo uno di quei bambini protagonisti del tuo lavoro.
Inutile nascondere l’entusiasmo che il libro ha suscitato in mia madre. L’occasione però ha fatto scattare un ricordo che anche lei aveva quasi dimenticato. Una ragazza, o meglio una di quelle bambine ospitate in una famiglia del paese, che aveva conosciuto.
Devo dire che le persone coinvolte direttamente sono scomparse tutte, tranne mia madre appunto. Sto provando a cercare qualche testimonianza parentale in giro, ma proprio non so. Provo anche a descrivere il contesto in cui si muovono queste due storie legate alle mie famiglie, paterna e materna. Tutto questo è poca cosa, ma preziosa per noi. È stata anche l’occasione per recuperare alcune vicende delle mie famiglie che si erano in parte perse o che non mi erano note.
Anche soltanto come testimonianza mi sento di lasciarti queste cose.
Pietro
Aldo, il bambino di Rieti ospitato dalla famiglia Corbari a Santerno

Nella foto il piccolo Aldo di Rieti sulle spalle di mio zio Ezio. In piedi il cugino di Ezio, Pasquino per tutti Pasquali’. In secondo piano, dietro, le gambe accavallate probabilmente di mio nonno Giuseppe, Jusafi detto Vècia, vecchia.
Del bambino Aldo non si sa un granché. Era di Rieti e quando è arrivato aveva una grande fame, si dice. Pancia mia questo l’hai avuto… pare dicesse a tavola, e quando è stato il momento di tornare a casa non avrebbe voluto andare e piangeva. Andavano al cinema in un paese vicino. Quando mio padre ne parlava era come di una cosa normale che fosse accaduta, non trasmetteva niente di “eroico”… era quasi scontato. Così come durante i bombardamenti di Ravenna avevano ospitato una famiglia della città: si faceva perché era normale aiutarsi. Dove sarebbero andati questi qua? Era quello che mi trasmetteva.
I miei, dalla parte di mio padre, non erano certo benestanti. Alla fine ‘800 erano mezzadri qui a Santerno, una piccola frazione. Poi mio nonno, muratore, dopo la prima guerra mondiale riuscì a comprarsi un pezzo di terra, poca roba, mezzo ettaro, e a costruirsi un casetto in mezzo alla campagna.
“Negli anni della guerra non siamo mai stati alla miseria, quella vera, non sguazzavamo, soldi pochi, ma la fame almeno non l’abbiamo mai sentita, anche quando era fatica trovare la roba da comprare. Con quel po’ di terra, le galline, due conigli, il maiale, non abbiamo patito la fame, era già un privilegio…” diceva più o meno così mio padre.
Durante la guerra e i mesi dell’accoglienza di Aldo la famiglia era formata da mio nonno Giuseppe Corbari, classe 1890 (il capofamiglia, l’azdòr… il reggitore), la moglie – mia nonna – Maria Sintoni e i tre figli, Ezio del ’22, Amalia del ’24 e Martino, mio padre, del ’26. All’epoca i tre fratelli erano a cavallo dei vent’anni. Ezio (nella foto col bambino Aldo sulle spalle) era appena tornato dalla Germania; era stato – lui diceva – prigioniero, anche se era stato prelevato dai tedeschi poco prima di diventare soldato e deportato (mi viene da ricordare come lui raccontava il fatto che aveva anche del comico…). Faceva il garzone a casa di contadini tedeschi, raccontava “i maschi erano in guerra e a casa loro ci voleva qualcuno che mandasse avanti la baracca… mi hanno anche trattato bene” dal settembre ’43 alla fine della guerra. Amalia, la zia ‘Maglia, era in casa ad aiutare. Mio padre Martino era del ’26 e non ha partecipato attivamente al conflitto. All’epoca i due maschi erano già muratori da quando avevano 8-10 anni, mestiere che poi hanno fatto per tutta la vita all’interno della CMC di Ravenna come soci e capicantiere.

Tornando agli anni di Aldo devo aggiungere che attorno alla famiglia di mio nonno ce n’era un’altra. Mio nonno aveva una sorella, la Ziina, la zietta. Lei me la ricordo piccola piccola e cattiva cattiva e pare nascondesse le cose da mangiare, anche quel poco che c’era. Si era sposata con Schiti (lui non l’ho mai conosciuto). Questo Schiti era zoppo e faceva quello che poteva e che riusciva a fare. Avevano tre figli maschi e una femmina. Qui la situazione era sicuramente più difficile. Abitavano quasi di fronte a dove abitavano i miei, in un agglomerato multifamiliare, e’ palazòn, il palazzone, e la cosa che più di altre accomunava le varie realtà era la miseria. Probabile che la condizione “più leggera” di mio nonno portasse qualche aiuto alla sorella in difficoltà, fatto sta che quello che i miei hanno trasmesso è stato un senso di unica grande famiglia dove i cugini più o meno coetanei si sono sempre sentiti fratelli. Un’unica grande famiglia allargata.
Mio nonno era repubblicano, non era comunista… anzi: ricordo i litigi e le discussioni tra lui e Pipèn, un nostro vicino di casa, che si diceva comunista e che era dalla parte dei lavoratori anche se poi – gli rinfacciava mio nonno – non aveva mai fatto quasi niente in tutta la sua vita. Mio nonno però non votava repubblicano, una volta mi sembra che dicesse che aveva smesso di votare repubblicano quando il partito aveva dato l’appoggio a Mussolini. Andava a votare, ma scriveva delle cose tipo “auguri”… mi sembra che dicesse così. Lui è morto che avevo undici anni e alcune cose le ricordo bene, altre così così. Da noi il partito repubblicano era molto presente e specialmente dopo la guerra si contrapponeva al Pci. Qui il Pri, e anche la sezione di Santerno, è stato il luogo dove molti ex fascisti avevano trovato una loro collocazione anche senza rinnegare più di tanto la propria antica appartenenza… e anche questo mio nonno non lo sopportava.
Avevamo attaccato in casa il quadro col volto di Mazzini e quando all’osteria gli chiedevano come mai i suoi figli fossero comunisti – mio padre che era iscritto al partito e mio zio -, lui tra l’amareggiato e il chi se ne frega diceva che loro, i suoi figli, erano comunisti “di mangime”. Una volta da bambino gli chiesi chi era quello là … “quèl l’è Mazzini, quel l’è mei ch’ne tu bab!” quello è meglio di tuo babbo. Però non votava repubblicano. La famiglia era a forte impronta patriarcale e mio nonno è stato sempre quello che gestiva le cose, fino alla fine, è morto nel ’72. Dico questo e metto questi pensieri vicino all’operazione dell’accoglienza dei bambini organizzata dall’Udi e dal Pci, così, giusto per appuntare i fatti e per dire che sicuramente l’operazione dell’ospitalità ai bambini è stata accettata o voluta da lui, mio nonno, aldilà della sua appartenenza politica o semplicemente per quello che sentiva…
Mariella, la bambina di Rieti ospitata dalla famiglia Savini a Santerno.
Qui di seguito trascrivo una lettera, firmata Mariella, ripescata da mia madre dopo o durante la lettura del tuo libro. Mia mamma Rosetta, destinataria della missiva, si è ricordata del fatto e racconta che questa Mariella era ospitata a casa della famiglia Savini, sempre di Santerno, soprannominata Furnarèn. La lettera non ha data, ma leggendola fa riferimento alla nascita di un mio cugino che è nato nel ’56. Evidentemente sono rimaste in contatto per più anni. Purtroppo questa è l’unica lettera trovata e non essendomi questo contesto vicino… non trovo altri agganci.
Carissima Rosetta,
non puoi immaginare quanta gioia mi abbia procurata la notizia della nascita del tuo nipotino. Vorrei essere a Santerno per poter gustare meglio questa grande gioia e soprattutto per rivedervi tutte, ma in particolar modo la mammina e il bambino. Mi sembra di immaginarla Alba nel suo letto che abbraccia il suo bambino con infinito amore. E Adriano che padre felice sarà! E te Rosetta? le tue sorelle, la tua mamma come sarete contente! Anch’io ho provato la stessa gioia quando sono nate le mie nipotine; se assomiglia ai suoi genitori sarà un bel bambino davvero. Ma ora Rosetta parliamo un po’ di noi. Mi è molto dispiaciuto che Anna sia caduta, ma speriamo che non sia nulla di grave. Apprendo con piacere che Luisa e Lucia si siano divertite quest’estate, ma io a dir la verità non mi sono divertita come gli altri anni, cioè quando sono venuta a Santerno non posso di certo dimenticare i bei giorni trascorsi insieme a voi spesso quando studio sola nella mia cameretta, mi assalgono dolci e nostalgici ricordi ed allora cerco di ritornare con la fantasia ai bei tempi passati quando, tutte insieme ricamavamo e scherzavamo passando giornate meravigliose. Sapeste quanto vi rimpiango! Ma il babbo mi ha promesso di riportarmi ancóra da voi. Auguro con tutto il mio cuore a Renza di trovare a Firenze il principe azzurro che la farà felice. Rosetta lo hai già trovato, vero? Contracambio i saluti di Elodia con molto piacere; (per favore dille se le sono arrivate le scarpe, grazie).
Quando vedi la mamma Assunta dille che io anche se non scrivo, l’ho sempre nel mio cuore e serbo di lei il più dolce ricordo, perché non potrò mai dimenticare di essere stata per lei come una figlia. Cara Rosetta non vorrei mai terminare questa lettera, ma purtroppo ogni cosa ha un fine. Mando tanti affettuosi bacioni a te e alla tua mamma e tanti auguri particolari ad Alba e al piccino (di cui spero mi manderai a dire il nome). Saluti ad Adriano e famiglia, tanti baci a Luisa, Lucia, Renza ed Anna. Saluti infiniti alla famiglia Savini. Di nuovo baci a te e a Nino.
(Contracambio con piacere i saluti di Piruli’ e digli che io sono cresciuta e che ora tocca a lui)
Di nuovo bacio tutti
MARIELLA
(scrivimi presto)
Dimenticavo che vuoi sapere la scuola che frequento: studio lingue e poi in più Stenografia e Dattilografia
Sono stato al cimitero del paese e dalla lapide la famiglia Savini era così composta: Italo Savini, Italo d’Furnarèn, del 1920, è stato il macellaio del paese e pare lo fosse anche allora. Era il capo famiglia, sposato con Vienna Dal Pozzo, il padre era morto nel ’39. La madre di lui, Assunta Montanari, è la “mamma Assunta” a cui fa riferimento Mariella nella lettera.
Già da questo quadro si percepisce un contesto benestante confermato da mia mamma che ricorda Italo, assieme ad altri giovanotti dell’epoca tra i più “visibili”, i punti di riferimento di quello che stava avanzando… “quand ch’è paséva Italo d’Furnarèn, Clurindo e Bas-cianòn… u s’afarmeva e’ paes” quando passavano loro si fermava il paese. “Quist i era d’zoca cumunesta” questi erano di “ceppo comunista” e forse Mariella, pure lei di Rieti come Aldo, era stata accolta come dire… in linea con le direttive del partito.
Mia mamma e mia zia Alba, le più piccole di cinque sorelle orfane di padre, erano state in collegio da bambine fino alla gioventù imparando il mestiere del rammendo e del ricamo e dopo la guerra si trovavano assieme ad altre ragazze (quelle citate nella lettera) a preparare corredi o cose simili. È qui che la bambina laziale Mariella passava i pomeriggi.
Non so cosa altro dire se non notare una certa differenza tra questa e l’altra esperienza, quella di Aldo. Anche soltanto nella scrittura di Mariella, sia nella stesura (lettera fatta con la macchina da scrivere), sia nell’uso della lingua, sia come lei dice nella prosecuzione degli studi, si percepisce un contesto probabilmente diverso e forse non del tutto in linea con le esperienze descritte nel tuo libro.
Inutile negare che leggendo C’ero anch’io su quel treno e cercando di ricostruire queste poche cose che ti lascio, sono molte le domande che mi sono passate in mente: “Chissà che fine avranno fatto Aldo e Mariella? Chissà se ricordano ancora questi momenti? Chissà cosa vorrebbe dire ritrovarsi…”, forse anche soltanto costruire una domanda o un pensiero può far bene al cuore.
Chiudo con quello che più o meno ha detto il mio vicino di casa Paolo Piccinini, quello che ha regalato il libro a mia mamma e col quale condividiamo non soltanto l’essere dirimpettai: “Chissà se Ezio, il nonno Giuseppe, la Ziìna, Pasquali’, Pipén, Martino, Italo, la Assunta, i bambini Aldo e Mariella e tutti gli altri hanno mai pensato, allora, che dopo 70 anni ci sarebbe stato così tanto bisogno di loro, di raccontare e di raccogliersi attorno a questi fatti “positivi”. Ancora oggi, con tutto quello che stiamo vedendo e vivendo in questi giorni”.
grazie ancora
Pietro Corbari
Un’altra storia stupenda.
Un abbraccio a Rosetta.