Messaggi da un’altra Italia (2002-2024)

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Sono passati più di venti anni dall’avvio della mia ricerca sul movimento di salvezza dei bambini del secondo dopoguerra italiano, un movimento di “affidamento familiare di massa” che oggi – anche sulla spinta del titolo del mio primo libro sull’argomento – viene definito “i treni della felicità”. Questa definizione la rintracciai nella testimonianza di Maria Guerra, responsabile femminile del Pci di Modena, che l’attribuiva al sindaco Alfeo Corassori che propose di chiamare così il treno che riportava a Napoli i bambini ospitati nella sua città (l’intervento di Maria Guerra si trova in Cari bambini, vi aspettiamo con gioia… Il movimento di solidarietà popolare per la salvezza dell’infanzia negli anni del dopoguerra, a cura di Angiola Minella, Nadia Spano, Ferdinando Terranova, Teti, Milano 1980, pag. 153)

Per i primi lunghi sette anni, dal 2002 al 2009, insieme al regista Alessandro Piva percorremmo l’Italia per costruire il nostro documentario, da sud a nord e viceversa, alla ricerca dei bambini saliti sui “treni della felicità”. Facemmo una gran fatica a rintracciarli, contattarli, incontrarli. Ci aiutarono il passaparola, alcuni amici tenaci e lungimiranti, ma l’assenza di un’organizzazione e di un sostegno istituzionale alla ricerca ci costrinse a lunghissime pause e alla casualità nel mettere uno accanto all’altro i tasselli di un mosaico che via via andavamo componendo.
Con le testimonianze raccolte e organizzate, si delineavano due grandi quadri, inseriti all’interno del più vasto movimento di trasporto umanitario dei bambini bisognosi in Italia. Due quadri che rappresentavano due momenti storici e due diversi territori: il 1950 con i figli della rivolta di San Severo e il 1946 con il primo grande movimento “per la salvezza dei bambini” che portò migliaia di bambini dalle terre ridotte a deserto del cassinate, verso il nord e l’accoglienza delle famiglie toscane, emiliano romagnole, liguri.

L’impostazione della ricerca cambiò radicalmente alla pubblicazione del mio libro I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie (Ediesse, Roma 2009) e – dopo due anni – con la presentazione del film documentario di Alessandro Piva, Pasta nera.

Bari, laFeltrinelli, ottobre 2009, prima presentazione de “I treni della felicità”

Fu come spalancare le finestre della memoria, squarciare un silenzio durato troppi anni, fu come fare appello a quanti non avevano ancora trovato occasione di essere ascoltati, non avevano trovato interlocutori a cui raccontare la propria avventura, non avevano trovato nella società presente l’ambiente adatto a conoscere e comprendere con empatia quanto avevano vissuto nel passato, nella loro infanzia. Per molti fu l’occasione di fare i conti con dolori sopiti, vuoti da riempire, relazioni da ricucire. Una grande terapia di massa in cui sciogliere i nodi in cui la parola era stata avvolta.
Se prima delle nostre opere andavamo disperatamente alla ricerca di testimoni, dopo avvenne quasi il contrario: da fonti diverse cominciarono ad arrivare email, lettere, messaggi, richieste di contatto, racconti, fotografie. Scrissero ai giornali, alle televisioni, alla produzione cinematografica, alla casa editrice, alla pagina Facebook, sulla mia bacheca personale. Scrissero – e hanno continuato fino a oggi – gli anziani che da bambini erano saliti sui treni, i loro figli che avevano sentito raccontare tante volte quella storia, i nipoti a cui era sembrata solo una favola.

Negli anni successivi alla pubblicazione del libro ho sentito una grande responsabilità nell’essere considerato, d’un tratto, il principale referente di quanti cercavano, spesso da tanti anni, qualcuno a cui rivolgersi, qualcuno a cui parlare, qualcuno con cui dialogare. Ma buona parte delle volte potevo solo rispondere gentilmente, recepire richieste e istanze, provando, ogni volta che potevo a interessarmi di quello che mi raccontavano o a suggerire di trovare qualcuno più vicino a loro, un parente, un figlio, un nipote, con cui, insieme, ricostruire i ricordi traballanti, nebulosi, affioranti. Questi messaggi sembravano “messaggi in bottiglia”, lanciati nella speranza di una risposta, di un riconoscimento, accompagnati dal desiderio semplice del “rendere testimonianza”.
Uno dei primi arrivò alla redazione de ilVenerdì di Repubblica. Lo scriveva Deanna Marmiroli da Reggio Emilia:       
Provo una grande emozione e vorrei aggiungere la mia testimonianza di bambina reggiana, forse allora un po’ più fortunata dei bimbi del Sud. Durante la lotta per il posto di lavoro, nella quale vennero uccisi numerosi manifestanti, decine di bambini reggiani vennero accolti da famiglie della Romagna. Io sono tra queste e ne conservo un indelebile ricordo: malinconico, per l’allontanamento dai miei genitori. Ma poi, crescendo, ho valutato la situazione con più consapevolezza. Partiti da Reggio Emilia in pulmann, arrivammo alla sede Udi di Lugo. Qui, intimorita e con il cuore che mi batteva a cento all’ora, incontrai Maria Berti di San Bernardino di Ravenna, che accarezzandomi mi prese per mano e mi portò a casa sua dove ad aspettarmi c’erano Sante, Filomena e altri figlioli. Erano una famiglia di operai dal cuore grande e mi hanno voluto bene come a una figlia. I miei genitori seppero in seguito a chi ero stata affidata e la mamma mi venne anche a trovare. I bambini in queste situazioni erano stupendi, non protestavano, erano educati e accettavano il volere dei genitori con una maturità che a otto-nove anni ha dell’incredibile se li paragoniamo ai viziatissimi pargoli di oggi. L’altruismo di questa gente di Romagna degli anni Cinquanta dovrebbe far riflettere molti: bisogna ricordare che le famiglie non erano benestanti, ma operaie e contadine, quindi la loro generosità era incondizionata. Di nuovo grazie di cuore a chi organizzò queste partenze, alla Camera del Lavoro, all’Udi, che diedero un po’ di respiro e meno bocche da sfamare alle famiglie reggiane sfinite dalla lunga lotta per il posto di lavoro.
Deanna Marmiroli

1950-1951, Ravenna ospita i figli e le figlie dei lavoratori delle Officine Reggiane in lotta.

Con la lettura di questa lettera, avviai con Deanna un breve dialogo epistolare. In una delle sue lettere mi scrisse: …premetto che io, nonna sessantaseienne, ho come intermediaria una nipote ventiquattrenne, Jessica, più esperta di computer di me, la quale, affascinata dai miei ricordi, mi esorta a raccontare, scrivere e testimoniare. Sono disposta a darle ulteriori informazioni per ciò che riaffiora prepotentemente nei miei pensieri, specialmente in questi anni dove le preoccupazioni sono all’ordine del giorno, in particolare per i giovani e il lavoro (ma non solo) che mi sembra di essere tornata al passato.
Non ho mai trovato, nel tempo, l’occasione d’incontrare Deanna, ma proprio mentre scrivevo il mio nuovo libro C’ero anch’io su quel treno, il mio caro amico Igino Poggiali, a cui avevo parlato di questi messaggi che andavo trascrivendo, da Lugo di Romagna mi scrisse: Caro Giovanni, ho trovato una signora, Lanconelli Antonietta, nipote della Maria Berti che ospitò Deanna Marmiroli, citata nella lettera al giornale. Antonietta aveva la stessa età di Deanna e ricorda benissimo quando giocava con lei. Abitava con la mamma a qualche chilometro dalla casa dei nonni che ospitavano Deanna. Andava dai nonni in bicicletta lungo l’argine del fiume e i genitori non erano tanto contenti perché era molto piccola. La notizia incredibile è che negli anni ‘80 Deanna aveva già scritto a un altro giornale raccontando la sua storia di ospite a San Bernardino di Ravenna. La sua lettera era stata letta, durante un viaggio in treno, da un parente di Antonietta e così erano riuscite a riprendere il contatto e si erano riviste, loro due, vecchie amiche di giochi, e tutti gli altri della famiglia Berti. 

La lettera di Deanna Marmiroli, accolta sulle pagine di un giornale, fu solo la prima di centinaia di altre ricevute da ogni parte d’Italia e in particolare dalla Campania.

Io sono uno dei tanti bambini che presero quel treno per essere ospitati dalle famiglie del nord. Sono stato ospitato da una famiglia di Cremona, esattamente a Pieve San Giacomo. Mi fa molto piacere poter raccontare a qualcuno il periodo brutto ed in molti casi anche bello che ho vissuto. In questa vicenda c’è un risvolto positivo. Dopo 40 anni ho rintracciato la famiglia che mi ha ospitato. Ora sono in contatto con loro, le due figlie rimaste, mie coetanee.
Ernesto Vastarelli Napoli

Io sono figlia di uno di questi treni, infatti la sorella di mia madre, Italia, nata a Montecalvo Irpino, partì nel 1947 per Reggio Emilia e fu ospitata con altre due bambine dello stesso paese a San Prospero di Correggio. Diventò poi mia zia perché l’ospitante partigiano Leo sposò il 14 giugno 1948 la sorella Felicetta, mia madre. Lei non può immaginare quanto le sia grata per aver messo in luce questa storia, tutte le volte che l’ho raccontata non ho mai potuto documentarla e ha sempre avuto sapore di favola. Quando le bambine sono tornate a casa le hanno portate in giro per il paese su un camioncino scoperto per far vedere agli abitanti che stavano bene e che i comunisti non avevano fatto loro del male. Mio padre, che era il responsabile, aveva scelto i bambini di famiglie povere vicine al partito comunista, perché gli altri avevano paura e non si fidavano.
Luciana Annovi Treviso

Mia madre è partita da Napoli, ospitata presso una famiglia bolognese, ha potuto mantenere i rapporti con loro. Anch’io ho conosciuto questa splendida famiglia che ha ospitato la mia mamma. In questo caso, se ho ben capito dalla mia mamma, l’organizzazione fu gestita dalla sezione del partito comunista. Infatti abbiamo una foto che ritrae il gruppo con le famiglie e una bandiera, mi pare, del partito. Una storia che mi ha sempre commosso.
Maria Grazia – Napoli

Io sono uno dei bambini accolti dalla comunità modenese, che mi è rimasta nel cuore. Sono stato alcuni mesi a Modena, ospite di una famiglia contadina, In verità ricordo molto poco, ero piccolissimo, appena 4 anni, ero con un mio cugino più grande, che rimase a Modena e lì è cresciuto e tutt’ora vive. La cosa che maggiormente ricordo è la grande quantità di neve, ero in campagna e al mattino era così tanta che bloccava il portone d’uscita della masseria ed il proprietario non poteva uscire col cavallo e carretto, e pensò bene di comprarmi una piccola vanghetta con la quale, facendomi saltare dalla finestra, liberavo il portone e così lui poteva uscire. È la cosa che più mi è rimasta in mente. Quando a 18 anni sono andato in Germania a giocare a calcio e lavorare, mangiavo, non sapendolo, a casa di uno dei tre degli “Ultimi 45”, i tedeschi che si salvarono dai bombardamenti americani al monastero di Montecassino. Strana la vita, fu la generazione dei giovanissimi reclutati da Hitler.
Un abbraccio, ciao, Luigi Manna Napoli

Sono stato nel ‘47 presso una famiglia della provincia di Reggio Emilia. Avevo cinque anni.
Gennaro Lo Presto – Napoli

Mio nonno Antonio è stato su uno di questo treni, per anni ci raccontava di quella famiglia che l’aveva accolto… Se ne è andato qualche anno fa, ma se potessi vorrei trovare anche un discendente della stessa per ringraziare.
Mattia Dal Vià – Aversa

Io sono una di quelle bambine. Avevo 5 anni e i ricordi sono inediti, ringrazio ancora la famiglia che mi ospitò. Ho letto anche ‘Salviamo i bambini di Napoli’ di Giorgio Amendola. Non ho mai avuto l’opportunità di raccontare, a parte mio fratello. Sono di Miano, Napoli, se qualcuno si ricordasse di quella esperienza mi piacerebbe parlarne.
Lena Cimminiello – Napoli

Da Caivano partirono all’incirca sessanta bambini, fra quelli c’ero anch’io. Correva l’anno 1947, l’Italia usciva da una guerra disastrosa, voluta da un dittatore che aveva ridotto il paese alla fame. Fu per questo motivo che l’Unione Donne Italiane pensò di aiutare i bambini del sud organizzando una grande colonia di massa: circa settantamila bambini furono ospitati nelle regioni “rosse” del centro e del nord Italia. A distanza di tanti anni, ricordo ancora dei nomi come: Gioacchino, Dario, Angelo, Nicola, Domenico detto Mimì Barbas, e naturalmente tanti altri visi di cui però non ricordo il nome. Fui accolto con tanto affetto da un’umile famiglia, il cui capofamiglia era un semplice impiegato dell’Enel, era stato anche partigiano. Per mia esperienza diretta posso dire che fu una esperienza di vita straordinaria. Mi vollero un bene pazzo, tant’è che ancora oggi mantengo stretti rapporti con i loro figli.
Domenico Bervicato – Caivano

Ho visto il video che riguardava i treni che trasportavano verso località del centro Italia i bambini del sud, in situazione di disagio, nel 1948. Ho subito ricordato la storia che mi ha raccontato un mio amico settantenne che ancora parla di quel periodo della sua vita con entusiasmo e commozione! Vive ad Ottaviano e non è il solo che è stato ospitato da famiglie emiliane.
Nunzia Portolano, Napoli

Vi allego una foto, scattata nella Camera del Lavoro di Montescaglioso, in occasione della partenza dei piccoli figli di braccianti impegnati per l’occupazione delle terre 1949-’50, alcuni dei quali finirono in carcere. Sono un ex docente di Scuola Media che nel 1999 organizzò con gli alunni di una terza classe una ricerca su quel periodo.
Grazie, Domenico Gallipoli – Matera

Mi chiamo Ida Petrilli, ho visto il documentario Pasta nera, ero insieme a mio padre, il quale ha vissuto personalmente la storia narrata nel documentario. Mi sono trovata a rivederla con lui e attraverso le lacrime e la sua commozione, l’ho visto tornare bambino… vi assicuro che è una esperienza indimenticabile. Noi figli e nipoti l’abbiamo ascoltata molte volte, e abbiamo insistito per fargliela scrivere, e infatti abbiamo una piccola opera editoriale familiare dove, insieme ad altri fatti della sua vita, mio padre racconta ampiamente dell’episodio del suo viaggio in Romagna. Grazie di nuovo per le emozioni che avete regalato a me e a mio padre.
Cordiali saluti, Ida Petrilli – Roma

Con questi messaggi e testimonianze si avverava quello che era uno degli obiettivi della ricerca: la partecipazione collettiva alla ricerca stessa. Ogni messaggio diventava spunto di approfondimento, elemento di novità o conferma di quanto fino a quel momento acquisito.

Uno dei tanti messaggi, diverso da quasi tutti gli altri, fu quello che mi portò alla conoscenza di una storia difficile e drammatica, che riguardava una bambina napoletana che una volta affidata a una famiglia ligure per sempre i contatti con la famiglia di origine (che non l’aveva mai accettata in quanto figlia illegittima) e per tutta la vita nutrì il desiderio mai soddisfatto di ritrovare la sua madre biologica. 
Il messaggio di Anna Azzarà:
Mia madre nel 1946 circa era su uno di questi treni pieni di bambini… da Napoli a Savona… mi scuso del disturbo ma se qualcuno potesse darmi suggerimenti o consigli sarei molto grata! Fornirò tutte le notizie che conosco. Davvero di nuovo tante grazie per avermi risposto e dato una speranza dopo tanto tempo di risalire alla storia di mia madre… le auguro una buona serata…
Lo strano caso di mia madre è il problema contrario… ha perso quella di origine!
Anna A.
Dopo averle chiesto di inviarmi notizie più dettagliate riguardanti l’esperienza vissuta dalla madre, Anna Azzarà mi scrisse due lunghe mail, esponendomi il suo caso, davvero problematico e complesso, diverso da quasi tutti gli altri di cui ho provato ad occuparmi:
Io Vorrei, grazie al suo interesse per queste vicende storiche, riuscire a trovare informazioni riguardo la famiglia d’origine che rimase a Napoli.
Mia madre non fu più restituita alla famiglia biologica, ma non venne neanche adottata dalla famiglia che la ospitava, che continuò a tenerla con sé fino ai 18 anni, età in cui sposò mio padre.
Ma lei ha sempre sperato e chiesto che qualcuno la riportasse a Napoli almeno a trovare la tomba di sua madre.
Oggi è malata, ma vorrei farle questo regalo conoscendo come si sono svolti i fatti e vorrei capire cosa ha vissuto davvero, oltre le difficoltà della guerra e del distacco familiare. Mi scuso se mi sono dilungata o se sono stata caotica, ma è emozionante raccontare finalmente a qualcuno la sua storia… 
[leggi in questo blog la storia di Mira]

Da Ravenna mi scrisse anche Agnese Altieri, giovane musicista:
Mi chiamo Agnese, non so se sto scrivendo nel posto giusto, lo spero tanto…
In questi giorni, con la voglia di scrivere una canzone dedicata a mio padre, ho fatto un po’ di ricerche… mio padre salì sui treni della felicità probabilmente nel ‘46. Si chiamava Assuntino e partì all’età di 6 anni da Sgurgola in provincia di Frosinone alla volta di Ravenna, dove alla fine decise di vivere per sempre insieme alla coppia che lo ospitò. Purtroppo mio padre è mancato nel 2006 e trovare oggi un libro che racconta queste storie incredibili mi rende molto felice. Avevo anche io l’idea di scrivere la storia di mio padre con lui che me la raccontava, ma purtroppo la malattia me lo ha portato via troppo presto. Oggi la tecnologia e i social network permettono di ampliare le conoscenze e raggiungere persone che prima non avremmo mai pensato di raggiungere. Non sono una scrittrice, ma canto e vorrei riuscire a scrivere una canzone che parli di queste vicende al limite dell’incredulità. Grazie per ciò che ha raccontato, mio padre sarebbe impazzito di gioia.
A presto, Agnese Altieri

Pochi mesi più tardi uscì il cd del suo gruppo, i Solmeriggio, dal titolo Deux petit vagues, tra i titoli il brano I treni della felicità. Me lo inviò accompagnato da una nota e dal testo della canzone che aveva composto:
Carissimo Giovanni, in allegato il testo della canzone ‘I treni della felicità’. 
Il testo è dedicato a mio padre Assuntino. Mi ha sempre raccontato che quando scese dal treno in stazione a Ravenna fu colpito da una coppia, li raggiunse e si infilò tra di loro prendendoli per mano…
Ho cercato di immaginare e trasformare in parole lo sguardo di mio babbo da bambino…

Cento passi per giungere a casa
Mi guardasti con il cuore
E su quel treno mi facesti salire
Un binario leggero,
che mi porta ad una nuova vita
le mie mani sono piccole, ho solo sei anni.

Sono solo tra tanti bambini
Occhi fissi
Finestrino
Non ti vedo
Chi sei?
Io sono un puntino
Nell’oceano di questa vita, di questo turbinio.

Tutto ignoto ciò che ora mi attende
Ora scendo da quel treno
Cerco gli occhi che mi vedano il cuore
Ora prendo quelle mani
Filo d’erba tra le rocce.

Ora sono invisibile
Scendo, corro
Li raggiungo, sono qui
Mi vedete? Io sono un puntino
Nell’oceano di questa vita, di questo turbinio.

Ero solo tra tanti bambini
Occhi, chiusi
No non sogno, sono vivo.
Il mio cuore ora danza a metà
Tra l’amore di chi mi accoglie
E l’amore che il coraggio dà
…ora tengo quelle mani
prende il largo una nuova vita
ora guardo andar via il treno
ho solo sei anni.

Lungo i dieci anni successivi alla pubblicazione del libro I treni della felicità queste “voci”, frammenti di storie personali che sembravano essersi volatilizzate, non si sono mai spente. E a questi frammenti si sono aggiunte altre storie, più complete, più articolate, portate alla luce dagli stessi protagonisti o dai loro figli e nipoti, che mi hanno raggiunto e sollecitato a lavorare ancora sulle loro memorie. E la ricerca ha vissuto una nuova stagione di impegno, personale e “militante”. Proprio la scoperta e ricostruzione, anche letteraria, di queste nuove storie hanno alimentato il mio nuovo libro C’ero anch’io su quel treno. La vera storia dei bambini che unirono l’Italia (Solferino, Milano 2021). Erano, queste ultime, storie spezzate, irrisolte e in questi casi sono stati gli stessi protagonisti (un tempo bambini) che hanno chiesto al ricercatore/scrittore di riannodare fili che si erano persi nel tempo – tra bambini ospitati e famiglie ospitanti -, mettendosi a loro disposizione in qualità di investigatore.

Pozzuoli, 17 maggio 2018, a casa di Vincenzo Maione che mi racconta la sua storia.

Così, come in un diario, quindi, ho provato a rimettere ordine e senso in queste storie, ricomponendo informazioni desunte dalle mail ricevute, dai messaggi, dalle telefonate dei protagonisti stessi o dei loro cari. Erano tutti alla ricerca spasmodica di un nome, un indirizzo, un’immagine, una traccia persa in tempi lontani. In alcuni casi queste investigazioni hanno dato frutto e i fili spezzati sono stati riannodati, persone lontane si sono incontrate nuovamente dopo decenni, le emozioni ripreso vigore.
Il ricercatore entra così direttamente nella vita reale dei propri testimoni, riuscendo, in alcuni casi, a modificarne il percorso. Non si limita a raccontare, ma diventa nuovo accompagnatore, amico, fratello dei protagonisti delle sue storie.
Il racconto dei protagonisti diventa anche espressione del profondo desiderio di recuperare la memoria di un tempo diverso da quello che li circonda, ritrovando la serenità vissuta, spesso per soli pochi mesi, in “un altro mondo”, che appare ancora come sogno indimenticabile e realtà che non si può rivivere, se non con le parole.
Queste storie sembrano frutto della scoperta di un mondo scomparso, dimenticato, nel quale molti però si riconoscono come sopravvissuti di un’altra Italia e la mia vita, a causa di questa scoperta, è cambiata radicalmente. Quello che sembrava un normale lavoro di ricerca culturale, si è trasformato in una nuova forma di militanza e servizio culturale, forse anche politico, di quella politica che, oggi, sentiamo mancare.

Sono stati tanti gli incontri di presentazione dei miei libri, durante i quali molto spesso ho visto una mano che si sollevava e un signore o una signora che chiedeva di parlare dicendo C’ero anche io su quel treno! E le storie continuano a moltiplicarsi, con le voci che si intrecciano, dialogano, l’una che rimanda all’altra, volti che finalmente ritrovo e riconosco, storie che si dipanano tra parole, documenti, immagini e suoni. Continuo ancora oggi a ricostruire una Storia in cui tante piccole storie sembrano ripetere un identico canovaccio, ma si distinguono nei particolari, nei modi tutti diversi e personali in cui ogni persona vive e sperimenta i momenti fondamentali della propria vita. È come comporre un mosaico che, osservato da vicino, ci presenta le sue tessere tutte diverse e frammentate, ma che, osservandolo a giusta distanza, ci fa scoprire il suo disegno complessivo e affascinante. 

A volte sogno che tutto questo si trasformi in un grande Archivio Pubblico delle Storie e delle Voci, perché la memoria rimanga viva, per i bambini e le bambine di oggi. Forse basterebbe un monumento, un ricordo concreto di quanto di bello è avvenuto anni fa in questa nostra Italia. Ma forse potremmo considerare monumenti i libri stessi e le storie che tramandiamo, passandole di generazione in generazione, che ricordano e onorano quelle vite degne di eterna considerazione.

NOTA
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta su “FRONTIERE”, a. XXIII, n. 39, gennaio-dicembre 2022, pp. 72-83
Molte altre storie che non hanno trovato spazio nei miei due libri dedicati ai “treni della felicità” le ho raccolte in questo mio blog, intrecciando testimonianze e documenti ricevuti dai testimoni o da loro parenti, nella sezione Treni della felicità/Happiness Trains