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Sto leggendo un vecchio libro, ritrovato casualmente in una libreria antiquaria. Si intitola Vallone del Purgatorio. Lettere di ragazzi italiani, a cura di Dina Rinaldi (con una prefazione di Carlo Levi), pubblicato nel 1957 da Feltrinelli. Raccoglie 150 delle migliaia di lettere inviate da ragazzi e ragazze italiani, dai sette ai quattordici anni, al loro giornalino “Il Pioniere”, dal 1951 al 1956. Scrive Dina Rinaldi, nel 1957 direttrice de “Il Pioniere” (dopo aver condiviso la direzione, nei primi tre anni di vita del giornale, con Gianni Rodari): “La maggior parte delle lettere è stata scritta da ragazzi che appartengono a famiglie modeste e, a volte, povere; da ragazzi che forse troppo presto hanno imparato il senso concreto, e non solo letterale, di parole che appartengono al vocabolario degli adulti: lavoro, salario, disoccupazione, stato, comune, assistenza…”.
Sfoglio le pagine, leggo nomi di bambini, ragazze e ragazzi, di tutte le regioni italiane, che firmano i loro micro-reportage fotografando una generazione senza infanzia, già adulta: raccontano le loro microstorie, il loro paese, la famiglia, la scuola, i giochi, i sogni, gli affetti. Raccontano la precoce fatica di lavoratori sfruttati.
Un nome riconosco e mi sorprende: Natale Orecchia, un ragazzino che scrive da Minervino Murge in Puglia. Lo avevo già incontrato, nelle mie ricerche sulla cultura popolare pugliese, che svolgevo a fine anni ’70 del secolo scorso, durante il pellegrinaggio al Santuario della Madonna Incoronata presso Foggia. Era il cantore del gruppo e, nelle notti trascorse insieme ai pellegrini delle Murge, cantò di tutto, dalle laudi religiose, alle nenie pastorali, dagli stornelli ai canti sociali e di lotta. Era un vero e proprio “albero di canto” per l’infinita memoria di versi e melodie che custodiva.


Qualche tempo dopo, era il 1978, andai a trovarlo a Minervino Murge, durante la ricerca sulla storia della festa del Primo Maggio, così come veniva vissuta e ritualizzata in Puglia. E mi raccontò la sua vita, di bracciante bambino. E proprio alcune di quelle storie che mi raccontò allora, registrate fedelmente su nastro magnetico, Natale Orecchia le aveva scritte molti anni prima, quand’era quindicenne, al suo giornalino preferito:

Natale Orecchia, anni 15
Non ci crederai, ma sono molti i bambini che qui lavorano e che non possono proprio studiare. Io ho tanti amici che come me lavorano e oggi ti parlo di quattro di loro. Sono:
Vincenzo Cipriani, di 12 anni, lavora da calzolaio apprendista. Lavora 12 e forse di più al giorno, il salario è di qualche biglietto di cinema: costo L. 40. A Pasqua non ha ricevuto nessun compenso.
Savino D’Abbene, di 15 anni è un fabbro apprendista. Lavora 13 ore al giorno, di rado il maestro gli dà L. 500 mentre prima gliene dava ogni quindicina.
Bruno Forte, di 12 anni, lavora in un Bar dalle 14 alle 16 ore giornaliere con L. 1.500 mensili. È costretto a lavorare, vorrebbe studiare, ma il padre è invalido del lavoro.
Giovanni Superbo, di 12 anni, lavora in campagna a pascolare i cavalli. Lavora dall’alba al tramonto del sole; il padrone gli offre da mangiare, i vestiti usati e non abiti nuovi. Salario niente.

Minervino Murge (Bari)
5 maggio 1954

Cerco nel mio archivio sonoro, tra nastri, cassette e CDrom. Trovo la sua voce, le sue parole. le riascolto e provo a immaginarlo intento a scrivere la sua lettera a “Il Pioniere”, il suo giornale. E provo a legare quella testimonianza scritta, a quella orale, a mettere in relazione il ragazzino quindicenne e il giovane trentottenne che avevo di fronte.

Natale, quel giorno del 1978, mi raccontò di quando, a dieci anni, diventò un “Pioniere” e cominciò a organizzare i bambini del suo paese:

Nel 1950 la FGCI, la Federazione Giovanile Comunista, lanciò un appello affinché in tutti i comuni sorgesse l’API, l’Associazione Pionieri d’Italia. Io pensai che per attirare i giovani, stargli vicino, bisognava offrirgli quello di cui avevano bisogno.
Di cosa ha bisogno un ragazzo? Di sentire un racconto, magari: e così gli leggevo un libro, Cuore, un libro pieno di racconti. Però questo non bastava. Bisognava preparare un gioco, per esempio. Ed io incominciai a fare tutto questo. Raccolsi del materiale adatto e incominciai a formare il primo nucleo di venti trenta bambini. Questi venti trenta bambini poi, attraverso le attività che facevo, si moltiplicarono e rafforzarono.
Presi contatto con l’Associazione Pionieri nazionale e inviarono presso la nostra sede il giornale “Il Pioniere” pieno di racconti e poesie. C’era anche un’altra rivista, “la Repubblica dei ragazzi”, dove si spiegava come si realizzavano i giochi e fare tante attività.
Prendemmo contatto anche con l’Associazione Pionieri di Imola e un compagno, Gabriele Baldelli, s’impegnò e ci fornì una lampada magica, insomma un proiettore, e facemmo delle filmine. Molti ragazzi si divertivano a vedere quelle filmine. Erano bambini dai sei ai dodici anni.
In occasione del Primo maggio, poi, facevo sempre delle raccolte di disegni, dei semplici disegni che può fare un ragazzo di cinque sei anni. Oppure raccoglievo qualche tema, qualche pensierino che un ragazzo a quell’età poteva esporre e scrivere.
La festa del Primo Maggio era molto sentita dai nostri genitori, sentivamo l’affetto per questo Primo maggio. Nel Primo maggio la festa era anche folklore, le persone portavano il garofano rosso all’occhiello, portavano il fazzoletto rosso al collo come simbolo della guerra partigiana, il fazzoletto rosso dei partigiani. Noi bambini, per quella festa, venivano “preparati” dai nostri fratelli e dalle nostre famiglie e così tutti noi, bambini e ragazzi, partecipavamo attivamente al corteo. Bambini di quattro cinque anni, così piccoli, venivano in corteo con i loro tricicli e con le biciclette piccoline. Non c’era una divisa vera e propria, però piaceva anche a loro portare il fazzoletto rosso al collo e addobbare le biciclette con le bandierine rosse o con qualche scritta. I carri venivano preparati nei rioni del paese, dagli uomini, e si collaborava tra i vicini di ogni via e vicolo. I giorni precedenti la festa si andava in campagna a raccogliere dei fiori, un po’ di erba. Si prendeva della carta o della stoffa colorata e si preparavano i carri e gli addobbi del Primo maggio.
Le donne, nel corteo, cantavano canzoni di lotta, canzoni politiche, canti partigiani, i canti della Resistenza. Sul motivo di “Bandiera Rossa”, presi dalla vittoria popolare e a dispetto dei borghesi, a dispetto degli agrari, a dispetto insomma di questi retrivi reazionari, si cantava la canzone Ce tine la pena ‘o core s’ l’ha da fa’ passa’ (Se hai pena al cuore fattela passare). È più che altro una semplice strofa, si ripeteva tre volte e si finiva con Evviva o comunism’ de la libertà.
Era diverso ogni anno, il Primo Maggio, dipendeva dalle lotte che facevano i popoli.
Ricordo un Primo maggio dedicato alla Pace, nel senso che in quel periodo si combatteva in Africa, in Asia e noi esaltavamo le lotte di quei popoli con l’aspirazione di far cessare quei combattimenti e avere la Pace in quelle terre e in tutto il mondo. Allora si parlava delle bombe atomiche, a propulsione nucleare. Allora noi allestimmo un carretto, un motocarro, e costruimmo un missile, tutto di cartone e carta pesta. E sfilammo in corteo col nostro missile.
Quando videro quel coso sul nostro carro, che raffigurava il missile atomico, intervennero i carabinieri che ci volevano impedire di sfilare, ma noi riuscimmo a proseguire, sfilando col carro atomico.
Poi arrivò il 1957 e morì Peppino Di Vittorio. Il Primo maggio successivo alla morte di Di Vittorio i giovani sfilarono portando tabelloni con la figura di Di Vittorio. Decine di ritratti di Peppino. Di Vittorio fu segretario della nostra Camera del Lavoro all’età di sedici diciotto anni, prima che il fascismo sorgesse. È sempre stato il simbolo di Minervino Murge.

Nella sua prefazione a “Vallone del Purgatorio” Carlo Levi scrive: “E non senza ragione troviamo, in queste lettere, una più viva personalità proprio nei ragazzi delle terre più povere, degli isolati mondi contadini, dove la necessità è in tutte le cose, nella natura stessa, e va vinta per opera propria…”.
Natale Orecchia nel 1954, quando scrive la sua lettera a “Il Pioniere” aveva solo quindici anni e, nell’età che noi ancora consideriamo prima soglia verso la maturità, era già stato pastore, bracciante, militante comunista, organizzatore sociale e politico, corrispondente e diffusore del “Pioniere”, il suo giornalino preferito.

Natale Orecchia

Fonte per i documenti de “Il Pioniere”: http://www.ilpioniere.org/minervino-murge.html