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Quel Sud, di povertà e di amore
di Roberta Pilar Jarussi

Mi sono seduta in seconda fila per sentire anche il fiato e lo strusciare dei piedi sul legno. In scena ci sono quattro musicisti (Antonio Piacentino, tromba, Paolo Luiso, tastiere, Antonio Tosques, chitarra, Leo Marcantonio, percussioni), una cantante intensa e austera (Mara De Mutiis), due voci narranti (Marcello Colopi e Giovanni Rinaldi).
La penombra del palco, il luccicore degli strumenti. Dall’alto scende fin quasi a toccare le teste degli attori, un grande schermo e proiettate sopra, immense, potenti, sbattute in faccia al pubblico, le immagini di quei bambini, tanti, uno sull’altro, scalzi, sciupati, con gli occhi grandi e affamati, e poi vestiti a festa, con le guance già un po’ più paffute dopo solo poche settimane di ‘vita nuova’. E ancora, le immagini di uomini e donne per bene, gli adulti e gli anziani che son diventati oggi.
Anche Giovanni è sul palco, è uno dei due narratori. Racconta con voce pacata e intima, come quando si parla a un piccolo gruppo di amici, o a dei bambini. Pare rivolgersi alle persone che di volta in volta cita, anche a quelli che non ci sono più e che ha fatto appena in tempo ad incontrare, e guarda un po’ in alto, oltre la sua testa, non so se per intercettarne i volti sullo schermo o se piuttosto si tratti di quel gesto istintivo, carico di rispetto e impotenza, che ci viene quando parliamo di qualcuno che non è più tra noi. Li chiama tutti per nome, racconta dettagli commoventi e buffi , anche, di ciascuno. “Tradisce” il testo tutte le volte che vuole, tutte le volte che gli torna in mente un particolare, aggiunge dettagli generosamente e condivide con gli spettatori una cosa in più. Tra un racconto e un altro, meravigliose versioni di canzoni care a noi tutti, di Capossela, De Andrè, De Gregori, Matteo Salvatore, Fossati… parlano di sud, di guerra, di povertà, di fame. E di amore. Proprio come accade tra le pagine del libro, durante questo spettacolo (che è molto più di un reading multimediale), un poco alla volta, tasselli della stessa storia, tornano insieme, vicini. Si ha l’impressione di entrare nel racconto in punta di piedi, di capire i fatti gradualmente, di scoprire segreti, e poi gioire di un lieto fine che in questo caso non è appiccicato e non è finto. Sul filo della lacrima, sempre con il sorriso però. Dall’inizio alla fine.
(tratto da “Il Gargano Nuovo”, a. XXXVIII n. 7/8 agosto 2012, pag. 7)