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Ci recammo a Orsara di Puglia, nel subappennino dauno, nel febbraio del 1978. Ero accompagnato da Paola Sobrero, mia compagna di ricerca e di vita e Anna Del Priore, allora assessore alla cultura del paese. Con Anna entrammo nelle case di tante donne braccianti (a Orsara in maggior numero degli uomini) e contadine, chiedendo loro di parlarci e raccontare la loro vita, familiare e di lavoro, tra tradizioni antiche e nuovi comportamenti sociali e politici. Era, allora, una nuova forma di inchiesta, non legata solo alle statistiche e alle analisi sociologiche, ma alla raccolta di storie orali personali e collettive che meglio potevano rappresentare la reale condizione femminile in quegli anni, in quelle terre. 
Antonia Del Priore, bracciante e contadina quarantenne, la incontrammo nella sua casa a pianterreno, dove quasi con sconforto, ci raccontò la sua storia familiare, piena di fatica e di soggezione ai soprusi padronali negli anni più lontani, per arrivare alla sua contemporanea vita quotidiana fatta, ancora, di viaggi nei pulmini dei caporali verso le terre del Tavoliere.

Il racconto di Antonia

Allora, negli anni del dopoguerra, non avevamo mezzi di trasporto a nostra disposizione. E così dormivamo fuori, quando si andava a lavorare nelle campagne lontano dal paese. Trascorrevamo anche un mese intero nella masseria. Mettevamo su, con reti e sacchi, una capanna e quella diventava la nostra casa. Quando finivamo la quindicina, due settimane di lavoro, a volte, un camion ci riportava in paese per due soli giorni. Erano tempi tristi. Non si mangiava come ora, ci si vestiva male, ci si lavava male, riempivamo tutti insieme un’unica stanza con conigli, maiale, l’asinello nostro, così, uomini e bestie. Nella stessa stanza, da un lato avevamo il maiale, dall’altro i lettini per noi e, accostato, il letto di papà. Ora è un’altra vita. Allora, nelle masserie, non lavoravamo sette ore, si faticava dal sorgere del sole al calare del sole, una intera giornata. Si lavorava troppo male, perché la mattina ci si alzava presto, col buio, alle tre e mezza quattro, e si andava lontano, molto lontano. Qualcuno, più vecchio di noi raccontava che ai suoi tempi i padroni, con una bacchetta, si piazzavano dietro ai lavoratori, e picchiavano chi rimaneva indietro, perché andasse più veloce e forte. Ora invece no. Certo, devi fare il tuo dovere, lavorare, ma non ci sono questi maltrattamenti. Eppure, noi, i nostri diritti sapevamo come difenderli. Ai caporali e ai padroni dicevamo: Attento… prendo la zappa e te la sbatto in testa. Ti vai a fottere tu e la tua terra! Certo, si capisce, non siamo stati dei fessi.
Allora le donne erano costrette a lavorare insieme ai loro uomini e, tornando, subivano anche i rimproveri e le urla di questi, perché i mariti volevano trovare anche pronto cucinato a casa. Quando eravamo alla mietitura, vicino al paese, ogni donna seguiva i quattro cinque uomini che falciavano il grano. Gli uomini mettevano a terra le spighe falciate e le donne dovevano coglierle e legarle in fascette, i grégne. Cinque minuti prima che gli uomini smettessero di lavorare, ogni donna doveva, a piedi, correre a casa a cucinare. Gli uomini poi, a dorso di mulo o a cavallo venivano a Orsara e pretendevano di trovare già pronto tutto in tavola.

Orsara di Puglia, febbraio 1978 ore 5:00. Braccianti nel furgone del caporale in partenza per il lavoro (ph. P. Sobrero)

In campagna, tempo fa, si cantava, ma anche ora, qualche volta. I più antichi cantavano così:
Padrone mije te voglie arrecchij (padrone mio ti voglio arricchire)
Cume nu cane voglie fatijà (voglio lavorare come un cane)
M’e fatte veve l’acque allù geloune (mi hai fatto bere l’acqua ghiacciata)
M’e fatte fa’ la vite cum’a nu cane (mi hai fatto fare una vita da cani)
e poi aggiungevano
Patrone mije te vurrije fa’ capitano (padrone mio ti farei capitano)
Al posto mio avess’capita’ tu (al posto mio dovresti trovarti tu).
Dicevano questo, perché tanti padroni sono andati sotto davvero, finiti a bassa fortuna. Si cantavano sempre gli stornelli, quelli a dispetto, botta e risposta, e si pazziàva così:
U sole ca dda cala’ (il sole calante)
e moki e mokà
sop’a chi a dda cala’? 
(su chi scenderà?)
Cala sop’Antuniette
 (scenderà su Antonietta)
e moki e mokà
cala sole ca dda cala’ 
(scendi, sole calante)
A’ ‘ntuniette chi c’ama dda’ 
(A Antonietta chi daremo?)
e moki e mokà
cala sole ca dda cala’ 
(scendi, sole calante)
Sempre ripetendo cala sole cala sole. Si sfottevano l’un l’altro, glielo dai a tua sorella e a tua madre…, si provocavano da una squadra verso l’altra.
Verso il tramonto, invece, cantavano le strofe di Russillo, il cavallo pigro:
Sop’u castille ce steva Russille (Sul castello stava Russillo)
ch’u pozzen’accide non vole fa’ ninde 
(che non vuol lavorare nemmeno morto)
quanne arrive l’ore de scapula’
 (quando arriva l’ora di smettere)
quille Russille non vole cchiu camena’ 
(lui, Russillo, non vuole più camminare)
Cara Russille cara Russille (il caro Russillo)
dumand’aumende allu stuppille 
(domanda di dargli più biada).
Russillo era un cavallo che non voleva tirare l’aratro. Naturalmente era una scusa cantare di Russillo che non voleva arare. Erano i braccianti che, al termine della giornata, volevano finalmente staccare dal lavoro o, almeno, essere pagati di più. Così, cantando, si badava meno alla fatica e il tempo passava. Qualche volta abbiamo lavorato insieme a gente di Ordona, di Orta Nova e loro cantavano sempre, ma quello che dicevano nei loro canti erano sempre versi contro il padrone. Si cantava soprattutto quando era tempo di mietitura e trebbiatura – la chiamavamo la pesatura – con tufi e pietre trainate dai muli, che schiacciavano le spighe raccolte. Si cantava sempre, uno provocava gli altri, poi si mangiava tutti insieme e i fiaschi giravano di bocca in bocca.

Al termine dei lavori, quando si mieteva non lontano da Orsara, quello, il padrone, sul suo sciarrabball’, o traìno a due ruote tirato da un mulo, se ne tornava al paese. E tu, a piedi, più lento, lo seguivi, rimanendo indietro. Quando avevi ancora un po’ di forze per rientrare, altrimenti rimanevi alla masseria. Quando arrivavi in paese rientravi a casa al buio e sempre al buio ripartivi per la campagna. Sul tavolo trovavi un piatto pieno solo di acqua ciotta, acqua e grasso sciolto dentro. Mentre i padroni mangiavano carne noi fessi mangiavamo olive e cipolle. Mio marito è andato alla mietitura mangiando solo una cipolla, quello gli facevano mangiare. Lui e un suo compagno hanno rischiato di morire per strada, tanto il caldo gli infuocava dentro l’aceto e le cipolle. Stava male, per il troppo caldo e il lavoro faticoso, poi l’aceto e la cipolla. Mentre i porci, sì che mangiavano, sempre carne, i padroni.

Un anno, mia madre e mio padre, nei giorni di San Lorenzo, dopo aver diviso, col padrone del loro piccolo terreno, il granturco coltivato, per mettersi in pari gli dovevano ancora una giornata di lavoro sui suoi campi lontano dal paese, presso la sua masseria. Così si recarono lì e dovettero quindi restare a dormire, all’aperto, sull’aia. Il padrone e la moglie dormivano nel loro letto, nella palazzina, e tutti quei poveri cristiani che erano giunti lì per lavorare, erano a terra, dappertutto, stesi su sacchi riempiti di paglia. Dormivano così, ogni donna vicino al marito suo. Quel porco del padrone, poi, in piena notte, si svegliava per fare un poco d’acqua e, scusatemi l’espressione, pisciava sopra la gente che dormiva sotto. Era proprio un gran porco.
Noi donne, certo, oggi lavoriamo meno di una volta, in campagna. Vanno più le anziane che le giovani. Ora che arriva aprile cominciamo con le barbabietole, poi finite le barbabietole si curano i tendoni dell’uva, poi i pomodori in agosto, poi la raccolta dell’uva a settembre e così si arriva alle olive a novembre. Noi, in tante, all’alba, scendiamo coi pulmanini verso le campagne del Tavoliere. I padroni preferiscono sempre le donne, al lavoro, perché le pagano poco, gli uomini non si accontentano. Le donne sono più disposte ad accettare qualsiasi paga, ma non siamo noi a parlare col padrone. Chi contratta è quello che ci porta sul lavoro col pulmanino, è lui che ci vende.
Andiamo al mercato e lì, ci vende.

(Prima pubblicazione sul portale InfoDem.it – 6 aprile 2020)

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