Questa è la prima storia di questo nuovo capitolo del mio blog.
Nella mia vita non ho fatto altro che farmi raccontare storie, da tanti uomini e donne a cui nessuno aveva mai chiesto un parere, una testimonianza, un frammento di vita vissuta. Ed è sempre stata, la mia, una scelta: farmi raccontare il bello e il brutto, il dolce e l’amaro di chi, quasi sempre, rimane fuori dai circuiti mediatici e di conseguenza, apparentemente, fuori dalla Storia, invisibile.
Sugli scaffali nelle nostre case sistemiamo file di libri. Sui miei, oltre ai libri, ci sono file di cassette e nastri magnetici, un archivio che contiene migliaia di voci, migliaia di storie, quasi tutte del secolo scorso.
In questo nuovo capitolo del mio blog, Storie del secolo breve, presento, in veste di contastorie, frammenti di vita, pensieri, canzoni, microstorie della Storia popolare del ‘900. Sono storie di un altro tempo, di un’altra epoca, che mi fanno anche tornare alla mia giovinezza, ma il loro racconto potrebbe servire a farci riflettere su come noi tutti affrontiamo, oggi, le nuove crisi, le nuove difficoltà, e come a queste si possa reagire e resistere, comunque.
Ogni volta, per ogni storia, diventa per me occasione per riprendere dagli scaffali del mio archivio, un’audiocassetta o un nastro magnetico, un minidisk o un video, tra-scrivendo, ri-scrivendo, talvolta traducendo, ma forse più spesso “evocando” le parole originarie che mi furono offerte tanti anni fa e che registrai pensando che così non sarebbero andate mai perse, come la memoria di coloro che incontravo.
Maria Manzi la conobbi nell’agosto del 1975, a Cerignola, bussando alla porta del suo pianterreno in uno dei vicoli dei rioni più popolari di Cerignola. Era nata a Canosa di Puglia nel 1914, per una vita al lavoro nei campi come bracciante agricola e poi in quelli più recenti come infermiera. Ci raccontò (con me c’era Paola Sobrero) frammenti di una vita faticosa e povera, riscattata negli anni del secondo dopoguerra dalla orgogliosa militanza nel partito comunista. Era una donna rude, imperiosa e fiera, dalla voce roca e forte. Ogni suo ricordo, dei momenti più critici vissuti dalla sua famiglia, era venato sempre di una sottile ironia, quasi un sorriso sornione, come a dire, a me curioso delle sue storie: Voi non ce l’avreste fatta, io sono sopravvissuta e posso anche riderne, ora.
Il racconto di Maria
Eravamo tre sorelle, in casa, con mio padre e mia madre.
La vita era faticosa e monotona.
Erano i primi anni sotto il fascismo, ero una bambina.
Per strada giravo sempre scalza.
Qualche volta con le scarpe rotte e piene di buchi. Erano dure, facevano male.
Certe volte tagliavamo i capelli e con i capelli tagliati facevamo una soletta morbida che mettevamo nelle scarpe, così il piede poggiava sul qualcosa di morbido. Mamma ci diceva: Su, tagliamo i capelli, li mettiamo lì dentro e arrangiamo. Quando sarà, poi, le andiamo a comprare nuove. Non le comprammo mai.
Mio padre per lavorare faceva anche lo spaccapietre, per fare le nuove strade, era il Municipio che pagava. Io cominciai a crescere. Maria, vieni con me, andiamo a schiacciare pietre! E come andiamo, senza pane? dicevo io. Sta zitta, ora cuciniamo due fave lesse. Noi la sera le mettevamo a mollo, le bollivamo, poi ce le infilavamo nelle tasche, papà se le metteva nelle tasche della sua giacchetta sudicia e andavamo insieme sulla strada a lavorare. Ci sedevamo ognuno su una grossa pietra e ting tang ting tang! Papà mi incitava, Se riesci a fare un monticello e mezzo ti do un centesimo! Papà, ma io mi stanco. Mari’ muoviti, fallo! Ding dang, feci il primo monticello. Così correvo più avanti, sceglievo il monticello di breccia più piccolo, mi accoccolavo vicino e battevo. Ne completai due interi, erano tre metri di breccia ridotta a pietroline. Finivamo quel lavoro e correvamo alla cava delle pietre, dove i camion caricavano i massi per la breccia.
Tornavamo a casa senza forze.
La sera quando andavamo a dormire, sul letto dei miei genitori veniva steso, a formare una capanna, un lenzuolo legato ai quattro capi del letto stesso. Lo si faceva per le zanzare. Non avevamo né un picchiatoio, né il flit, nulla. Si dormiva in camicia o senza nemmeno quella. Qualche volta, di mattina, noi bambine del vicolo, sedute sul gradino del nostro pianterreno, giocavamo con i sassolini e le palline di vetro, e vedendo uscire mamma con la camiciona lunga, ridendo tra noi, dicevamo: Hai visto? Sta andando a pisciare al pisciatoio! E tu? Hai visto tuo fratello?! Erano i nostri giochi di bambine. Qualche volta, di notte, andavo a piedi scalzi a sollevare quel lenzuolo steso, come capanna, sul letto. Che hai fatto!? Hai sollevato il lenzuolo e stavano tutt’e due coricati?! Sì, ma non dirlo a nessuno, altrimenti ci danno le botte, ci legano!
Eh, proprio così, sono stata spesso legata con una corda alla trave che reggeva il tramezzo al centro della casa. Ogni volta, per un qualsiasi motivo, quando non volevo fare i servizi di casa o avevo risposto male a papà… Mia madre mi metteva di spalle, mi stringeva le mani e mi legava stretta alla trave. Mi legavano così, con una cordicella, e loro mangiavano mentre io li guardavo. Ero una bambina, piccola. E chi lo dimentica. Quando divenni signorina lo rinfacciai a mio padre: Quante me ne hai fatte passare, papà mio! Non rispondeva.
Qualche notte mia madre si svegliava, mi scioglieva e mi infilava sotto il letto per farmi dormire, sul pavimento. I letti, allora, erano fatti con le assi di legno poggiate su bassi cavalletti e sopra poggiavano un sacco pieno di paglia scadente, quella che davano agli asini. Solo le famiglie che avevano qualche lira in più usavano la paglia del grano, più morbida. Noi poverissimi, andavamo nei campi appena trebbiati e con le falcette tagliavamo le ristoppie, prima che le bruciassero, tornavamo a casa e riempivano con queste i sacconi che usavamo come materassi. Appena ti stendevi su questi sacconi, le ristoppie si piegavano e spezzavano, gli steli erano rigidi e puntuti, ci pungevamo ed era tutto un fastidio per l’intera notte. Ci lamentavamo, soprattutto noi bambine. E i miei genitori ci zittivano, Schiaccia! Schiaccia! Cosa volevi schiacciare, premevi da una parte e fuoriuscivano dall’altra, uno strazio. Avevamo solo questi sacchi, mai visto un lenzuolo, cos’era un lenzuolo? Mah! Pezze, solo pezze.

Ogni mattina noi bambini in casa piangevamo, Mamma, il pane!
E lei rispondeva sempre: Non vi preoccupate, ora ora lo vado a comperare, appena si cuociono le fave lo vado a comperare. Allora poi usciva, andava alla piazza del mercato, si accostava ai banchi delle verdure e appena qualcuno puliva le verdure in vendita, buttando via le foglie più grosse o i gambi dei carciofi, lei raccoglieva da terra quel che poteva, nascondeva tutto in un foglio di giornale e, per non farsi notare, fingeva di portare a casa la spesa appena fatta. Più tardi arrivava papà, quelle foglie di cicoria le bollivamo insieme alle fave e ce le mangiavamo così, senza altro condimento.
Qualche volta i vicini di casa ci domandavano cosa avevamo mangiato e nostra madre ci imponeva di rispondergli sempre, una volta usciti di casa, Carne e pesce!
A papà piaceva anche suonare la chitarra, la sapeva suonare un po’. Ci chiamava, Ballate, ballate!
Dididìn dididìn… Lui suonava e noi ballavamo, mano nella mano, in cerchio. E dai, papà, s’è fatto tardi, abbiamo sonno.
E lui: Fra poco, fra poco, appena andate a dormire arriverà un signore col panierino, pieno di pane. Andate a letto, appena arriva il signore col panierino, vi sveglio e vi faccio mangiare.
Così andavamo a dormire, fiduciosi… arrivava così la prima luce dell’alba.
E avevamo superato un altro giorno.
(Prima pubblicazione sul portale InfoDem.it – 31 marzo 2020)
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