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GIOVANNI RINALDI e PAOLA SOBRERO
La memoria che resta. Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia
prefazione di Alessandro Piva
Edizioni Aramirè, Lecce 2004 (nuova edizione – I ed. 1981)
pp. 400, 142 fotografie in bianco e nero e a colori, 2 cd audio.

La memoria che resta” contiene i risultati della vasta ricerca sul campo realizzata dagli autori tra il 1974 e il 1980 tra i braccianti del Tavoliere di Puglia. “La più importante ricerca che sia stata fatta nel nostro Paese su una zona di bracciantato agricolo” secondo l’Istituto “Ernesto de Martino”.

I percorsi della ricerca partono dagli inizi del ‘900 giungendo sino agli anni ’70: la fatica quotidiana, la conquista dei diritti, Giuseppe Di Vittorio, la festa del Primo Maggio. Il volume (in questa nuova edizione totalmente riveduta e ampliata rispetto alla prima del 1981) presenta i saggi storico-antropologici di Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, le note bibliografiche di Linda Giuva, 60 narrazioni e storie di vita, 53 canti proposti da più di cento lavoratori agricoli, le fotografie d’epoca, i reportages fotografici di Giovanni Rinaldi, Alberto Vasciaveo e Paolo Longo. All’interno 2 CD audio contenenti 23 racconti e 42 canti.

La memoria che resta ha ispirato artisti di diversa provenienza, nei campi del teatro, della musica, del cinema.

“Poco meno di un anno fa “incontrai” un libro, La memoria che resta. Vi erano raccolte testimonianze preziose di una storia quasi dimenticata: la storia del movimento bracciantile nel Basso Tavoliere di Puglia. Qual è il senso di raccontare la memoria oggi? Perché la voce dei braccianti di cinquant’anni fa ci parla oggi come fosse cronaca? Il lavoro della terra, le memorie, la quotidianità dei braccianti sono una presenza costante, tracce e segni di un passato ansioso di futuro. Un passato che è presente, qui ed ora, con l’unica differenza che quegli uomini, un tempo piccoli e abbigliati in nero, oggi vengono da lontano ed hanno spesso la pelle nera. Per questo ricorreremo al teatro: per restituire voce a tutti quegli uomini che, oggi come allora, voce non hanno.” Enrico Messina, attore

“La memoria che resta è un lavoro, da acquisire e leggere, scorrere e studiare, di particolare importanza. È veramente prezioso perché, come è facile immaginare, alcuni dei testimoni di quel periodo stanno andando via, inesorabilmente. E lì, in qualche modo, sono tutte fermate: la loro memoria, le loro storie personali che s’intrecciano con quella del nostro Paese.” Alessandro Piva, regista

“Cercavo una chiave di racconto di me stesso, un elemento ispiratore forte: l’ho trovato tre anni fa su una spiaggia del Gargano, grazie a un amico che mi ha fatto leggere un libro, La memoria che resta: ho capito che dovevo ripartire dalla mia terra e da una sana nostalgia… E ho scoperto la forza evocativa di quelle parole, di quelle storie, di quei testi, di quel libro davanti a me sul pianoforte che leggevo ad alta voce, alla ricerca della musica per rendere in qualche modo mio quel racconto.” Umberto Sangiovanni, musicista

Il volume può essere acquistato sul sito dell’editore Aramirè Edizioni

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Il 24 novembre 2004 a Bari, nella Biblioteca provinciale di Santa Teresa dei Maschi, viene presentata la nuova edizione di La memoria che resta. Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia (edizioni Aramirè) che torna oggi arricchito da un nuovo saggio introduttivo e da una prefazione di Alessandro Piva.
Il libro fu presentato da Emanuela Angiuli, Ivan Della Mea e Luigi Quaranta.

L’intervista di Claudio Gabaldi a Ivan Della Mea (Corriere del Mezzogiorno 22 nov. 2004):

DELLA MEA: LA MEMORIA DEI BRACCIANTI PATRIMONIO DIMENTICATO

“Il valore di questa ricerca sta nella sua completezza”. È questo il parere di Ivan Della Mea. Cantautore nonché direttore dell’Istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino. “Un progetto così compiuto, come quello che viene presentato domani a Bari, è difficile trovarlo”.

Cosa significa “così compiuto”?
“Ci sono i testi, ci sono le foto, ci sono le interviste, ci sono le canzoni… Purtroppo oggi in Italia non si fa ricerca in questo modo. L’etnologo va per conto suo, il musicista pure… e tutti procedono separati. Invece, lavori come questo mostrano che c’è anche una cultura diversa da quella alta; una cultura che esprime un punto di vista differente, e che alle volte è contestazione e rivolta. E che può generare anche nuova produzione culturale”.
A cosa si riferisce?
“Ad esempio al lavoro di gruppi musicali contemporanei, in Puglia ce ne sono molti che non cercano di fare, per così dire, il verso al popolo, pizzicando o tarantando; al contrario, usano le tecniche di queste musiche popolari, e ci costruiscono canzoni nuove. E qualcosa del genere la fa Giovanna Marini. È un’operazione simile a quella che si tentava di fare con Il Nuovo Canzoniere Italiano e I Dischi del Sole. È un progetto politico-culturale al quale, però, manca spesso la parte finale”.
E quale sarebbe la parte finale?
“Quella che consentirebbe di chiudere il circolo virtuoso aperto con gli studi, e, quindi, restituire al ‘popolo’ quello che gli si è preso”.
In che modo?
“Attivando le scuole, i circoli culturali, le istituzioni… insomma, tutto quello che va attivato. Ma è una vecchia polemica”.
La vogliamo rinfocolare?
“Allora, faccio un esempio. Altrove, penso alla Francia, si cerca di sostenere iniziative del genere, pur con mille limiti. Un libro come questo, riconosciuto di particolare interesse culturale, viene distribuito in tutte le biblioteche. Basterebbe acquistarne 2000 copie; e si darebbe la possibilità agli autori di finanziarne un altro. Se non ci pensa lo Stato centrale, possono pensarci la Regione, gli altri enti locali… E invece solitamente questo non accade”.
Di chi le colpe?
“Ah, io non salvo nessuno, né destra né sinistra. Ma se è la destra a trascurare questi studi, mi interessa meno. È grave che lo faccia la sinistra. Basti pensare che Ernesto de Martino, per poter continuare le sue ricerche in Puglia, fu aiutato finanziariamente da Di Vittorio. Lui, il sindacalista di Cerignola, aveva capito l’importanza di certi studi. Chi è venuto dopo, no. Forse perché questi studi mettono in discussione la ragion d’essere di un partito: chiedere voti. Era pericoloso doversi destrutturare, calarsi nella realtà orizzontale della gente alla quale quel voto veniva richiesto. Ecco perché, anche nel Pci, non si teneva conto di come la gente vede quel che le sta intorno, e lo rielabora”.
Ci sono differenze fra la situazione degli studi etno-antropologici nel sud e nel nord Italia?
“Il sud è molto più avanti. Penso a nomi del passato e del presente: oltre a de Martino, Cirese, Di Nola, anche Annamaria Rivera, che ha lavorato a Bari. Nel nord è prevalso un certo neopositivismo che non guardava con particolare favore a questi lavori”.
Ha detto che lavori come questo andrebbero fatti circolare nelle scuole. Ma un sedicenne di oggi può capire discorsi del genere?
“Sì, se non si tratta di un’esperienza occasionale, se poi c’è qualcosa che dia il senso della continuità. Se tutto si riduce all’evento e basta, lascia ben poco”.
Ma la ricerca presentata domani risale agli anni Settanta. Non è datata?
“No. Ho visto, insieme a Cofferati, il lavoro teatrale che ne è stato tratto, Braccianti, di Enrico Messina. Non è passatista: usa la modernità per raccontare una storia, una sofferenza, uno stato d’animo che c’è anche adesso. La fame, dico: c’è anche adesso”.
Lei vede tutto nero?
” È difficile vedere rosa. Ci vorrebbero occhiali particolari”.