Tag

, , , , , , , , , , , ,

Nel mio libro C’ero anch’io su quel treno ho raccontato come, seguendo le tracce della storia del bambino napoletano Aldo Di Vicino, sono arrivato virtualmente a Imperia dove, aiutato da un collaboratore “a distanza” eccezionale, Mauro Manuello, ho scoperto un’altra storia, quella di Luigina Borgia che, partita dal Lazio, a Imperia è rimasta a vivere. Purtroppo, con il libro già pronto per la stampa, ho potuto dedicare alla sua storia solo poche righe. Ma averla comunque compresa nel mio racconto collettivo ha smosso memorie familiari assopite, diventando poi ricerca collettiva, partecipata, che ancora prosegue tra le famiglie imperiesi che quasi avevano dimenticato queste storie. Ora Luigina finalmente racconta di sé (in incontri pubblici e sui giornali), parla della sua famiglia di origine e di quella che l’ha accolta, della sua educazione, dei suoi due padri, delle lettere che inviava a Imperia suo papà Alessandro e del bene che le hanno voluto i suoi nuovi papà e mamma di Imperia.

Luigia Borgia (fonte ImperiaPost.it)

È Mauro Manuello che comincia a raccontarmi della città, del quartiere, della via dove incontreremo Luigia e la storia di chi l’ha accolta.
Siamo a Imperia, città operaia, proletaria. Fino agli anni Venti Imperia non esisteva, c’erano Oneglia e Porto Maurizio, due piccoli comuni. Oneglia “la Rossa”, vissuta sotto l’influenza dei Savoia, e Porto Maurizio, più borghese ed elitaria sotto la “protezione” di Genova. Poi si arrivò all’unificazione e i due comuni divennero Imperia.
Il quartiere Castelvecchio, a Oneglia, allora in zona periferica, era quasi campagna, c’erano gli orti. È un quartiere eroico, Castelvecchio, perché ha avuto storie incredibili di eroismo. E c’era una strada, via Santa Lucia. Era una via popolare, proletaria e Oneglia era una città di fabbriche, col porto commerciale, il pastificio Agnesi, le fabbriche olearie, l’Italcementi, e in questa via vivevano gli operai che lavoravano in queste fabbriche e vivevano in questo quartiere. Molti di loro hanno dato un contributo notevolissimo, prima nella clandestinità, poi come giovani partigiani nella Resistenza. Tanti sono morti e numerose le medaglie d’oro che li ricordano.

Mauro Manuello (fonte ImperiaPost.it)

In una casa di via Santa Lucia vivevano i Castagno e nella casa di fronte i Berio. Sono due delle famiglie che hanno avuto grandi lutti. Nella famiglia Castagno morì tragicamente il padre, ucciso dai tedeschi. Era partigiano e fu il primo a morire in quella famiglia, nel ’43-’44. La famiglia Berio perse Nino, anche lui partigiano, catturato e ucciso dai fascisti, qui sulle colline.
Erano anni durissimi, c’era stata la guerra, quindi non è che ci fossero tutte ‘ste risorse. Però la cosa molto bella fu che molte famiglie al termine della guerra si offrissero per ospitare bambini e bambine del sud più povero, prima quelli provenienti da Cassino e poi quelli da Napoli, dal 1946 al 1948. Erano le famiglie più colpite dalla guerra, ma furono le protagoniste di questo movimento di accoglienza, con adozioni temporanee. La famiglia Berio ospitò il piccolo napoletano Aldo Di Vicino e la famiglia Castagno il suo piccolo amico Oscar Giaquinto.

Sempre in via Santa Lucia abitavano i Peruzzi, quattro fratelli e una sorella. I due fratelli più grandi partirono volontari per la Spagna nel ’34-’35 a combattere con i Garibaldini. Da Imperia partirono 40 giovani per combattere nelle brigate Garibaldine in Spagna. Uno dei due fratelli, Armando, muore e rimane disperso. L’altro fratello, Luigi, riesce a tornare in Italia, per unirsi ai partigiani, ma viene ucciso. Un terzo fratello, Vincenzo, nome di battaglia Vince, pure lui partigiano, morì invece in un incidente ferroviario. A Luigi e Vincenzo fu riconosciuta la medaglia d’oro alla memoria. A casa rimase solo un altro fratello, Guerrino, nome di battaglia Iseo, che con la prima moglie ha ospitato un bambino laziale, Armando Borgia, fratello di Luigia che, a soli cinque anni fu ospite degli Aliprandi.

Gli Aliprandi abitavano al civico 16 di via Santa Lucia. Carlo Aliprandi, nome di battaglia Lungo, aveva fatto parte dei GAP, i Gruppi Armati Patriottici ed era stato commissario della Divisione SAP “Giacinto Menotti Serrati”. Anche gli Aliprandi perdettero un loro parente, Vittorio, nome di battaglia Dimitri, nella lotta resistenziale. Accolsero nel 1946 una bambina laziale, si chiamava Luigina Borgia, che è poi rimasta a vivere qui a Imperia, mantenendo sempre il suo cognome. Qui è diventata maestra, qui si è sposata. È stata anche sindacalista, consigliere comunale per il Pci-Pds e volontaria nel sociale. Ora ha 80 anni e ci ha raccontato la sua storia.

Febbraio 1946, arriva Luigina

Lettera del 7 marzo 1946 inviata dalla Federazione Pci al comitato CLNP di Imperia (Comitato “Salviamo i bimbi d’Italia”):
“In risposta alla richiesta del Comitato si trascrive l’elenco delle 10 famiglie alle quali sono stati assegnati i bambini provenienti da Cassino. […]
Peruzzi Guerrino (Via S. Lucia, 5 Oneglia) [Armando Borgia di 10 anni, da Anagni – consegnato il 19 febbr. 1946]
Aliprandi Carlo (Via S. Lucia 16 Oneglia) [Luigia Borgia di anni 6, da Paliano – sorella di Armando – consegnata il 19 febbr. 1946] […]”

Insieme a tanti altri bambini provenienti dal cassinate, Luigia Borgia e suo fratello Armando arrivano a Oneglia – a bordo del primo convoglio ferroviario – il 19 febbraio (secondo la lettera riportata). Mentre sul foglietto che Luigia portava appuntato sul suo cappottino e che ancora conserva gelosamente, dove è scritto “Borgia Luigia di Alessandro e fu Tufi Angela, nata a Paliano il 11-2-1941 scheda N° 2152 del Comitato Solidarietà per il Cassinate Frosinone” risulta aggiunta la scritta in stampatello “Arrivo ad Imperia 17-2-46”.

Luigia era forse la più piccola del gruppo, e viene ospitata da Carlo Aliprandi, che aveva allora 50 anni, e sua moglie Angiolina Arimondi che ne aveva 38, mentre Armando viene ospitato nella vicina casa di Guerrino Peruzzi. Luigina e Armando provenivano da Paliano, la loro era una famiglia di braccianti agricoli. I loro genitori erano Alessandro Borgia, nato a Piglio in provincia di Frosinone nel 1904, e sua moglie Angela Tufi, più giovane di lui di cinque anni. Dal loro matrimonio erano nati sei figli: Giulia, Nazarena, Giacinta, Maria, Armando. Luigia era l’ultima dei sei e la chiamavano Luigina.
Erano una delle tante famiglie contadine che nel dopoguerra affrontavano quotidianamente la dura realtà della sopravvivenza. Potendo contare sulle sole braccia per lavorare la terra d’altri. Spesso papà Alessandro non ricavava dalle sue fatiche neppure l’indispensabile. La loro abitazione, di cui Luigina ha solo ricordi vaghi, dei flash, era rappresentata da un’unica grande stanza in cui vivevano tutti insieme, a circa mezzo chilometro dal paese.

Non ha raccontato spesso questa sua storia, Luigina, un po’ per naturale ritrosia e un po’ per pudore, come racconta. Di quegli anni ricorda poco, ma non dimentica il rumore delle esplosioni delle bombe in lontananza e di quando per evitare pericoli si nascondeva con gli altri bambini o i fratelli e sorelle più grandi nei fossi di campagna, mimetizzandosi con le frasche delle piante. Le mettevano una mano sulla bocca per non farla parlare facendosi scoprire. Non sono bei ricordi, ma il ricordo di urgenti bisogni primari, la sopravvivenza, il mangiare quello che capitava. La salute era scarsa, c’era fame, un senso di privazione delle cose più elementari. La fame era la protagonista di quei tempi, gli ambienti di vita non igienici. Nel maggio del 1945, a soli trentasei anni, Angela Tufi muore durante il settimo parto, insieme con il bambino e il marito Alessandro rimane con i sei figli da accudire. Alessandro si trovò così, in grave difficoltà, e accettò l’aiuto offerto dal comitato “Salviamo i bimbi d’Italia”, che si era costituito dopo la guerra, sotto il patrocinio del CLN. L’iniziativa di solidarietà prevedeva l’affidamento temporaneo di bambini provenienti dal centro-sud della penisola a famiglie del nord, disposte a offrire loro ospitalità.

Luigia Borgia (fonte ImperiaPost.it)

Partimmo il 16 febbraio da Frosinone e arrivammo a Imperia il 17, “accompagnati” da una scheda che avevamo appesa al collo, purtroppo è andata smarrita, ma ho conservato il foglietto scritto a mano e che forse era spillato sul bavero del cappottino. Io di questo viaggio in treno non ho assolutamente memoria. Ero piccola, confusa. Ho però memoria dell’atmosfera trovata a Imperia. Forse salimmo su un camion militare, noi bambini eravamo seduti e in piedi su questi cassoni. Le famiglie poi ci “sceglievano”, secondo una simpatia istintiva, mi dissero “che bella morettina”, fu una simpatia vicendevole.
I primi tempi, quando io mangiavo, per il timore che il piatto me lo togliessero davanti, che c’era ancora del cibo, con un braccio mettevo la “protezione” e con l’altro mangiavo, con la fame che avevo era come se dicessi “non toglietemi niente”.
Il nucleo familiare, che doveva ospitarmi solo per qualche mese, divenne il mio in maniera duratura. Questo avvenne gradualmente, prolungando di volta in volta il periodo di ospitalità con il consenso del mio padre naturale, convinto dei benefici che traevo sotto ogni punto di vista. Io ero molto piccola e, istintivamente, mi legai in modo profondo alle persone che mi avevano dall’inizio prestato tante cure, per farmi dimenticare le privazioni subite, e mi circondavano, insieme a tutto il “parentado acquisito”, di affetto e di calore, talvolta ridendo delle mie frasi in dialetto ciociaro.

Carlo Aliprandi quando mi accolse aveva cinquant’anni, non era tanto anziano, ma lo sembrava, e questo era il risultato delle sue tribolazioni. Lui di sé non raccontava mai molto, aveva un carattere molto schivo.
Da bambino Carlo Aliprandi aveva fatto il venditore ambulante di giornali, da ragazzo imparò il mestiere di falegname che ha fatto per tutta la vita. Durante la Prima Guerra mondiale nella campagna d’Albania si ammalò di malaria. Aveva idee socialiste e nel 1921 si iscrisse al Partito Comunista. Sotto il fascismo subì soprusi in continuazione, considerato “elemento sovversivo”. Ad ogni occasione, perquisizioni in casa e arresti. Gli squadristi fascisti gli distrussero anche il laboratorio di falegnameria e poi durante la guerra dovette sempre nascondersi perché faceva parte della resistenza. Fece parte del primo C.L.N. e divenne commissario politico nel comando della Divisione S.A.P. “G. M. Serrati”. Aliprandi coordinava il lavoro delle squadre: organizzare un servizio informativo per conoscere quanto accadeva in campo nemico, compiere operazioni di disarmo, garantire prelievo e distribuzione fondi, vestiario e viveri per le formazioni dislocate in montagna, la gestione delle staffette.
Operava in città, non in montagna con i combattenti e viveva da clandestino, in casa di amici, parenti, anche presso l’Italcementi, dove lavorava là in quegli anni e poi aveva un suo rifugio sotterraneo da cui usciva solo la notte per prendere un po’ d’aria. Questo rifugio lo chiamava “la mia tana”. Ogni tanto negli anni successivi ricordava la Liberazione come “Il più bel giorno di festa, con il Primo Maggio!”

Luigina prende la foto in cui lei è tra gli Aliprandi.

Questa foto è veramente importante per me, dal punto di vista storico e da quello personale, perché rappresenta il mio nuovo nucleo familiare. Io in piedi sorridente, si vede che sono già risollevata dopo uno o due mesi di soggiorno a Imperia, insieme al papà adottivo Carlo e la mamma adottiva Lenuccia, e dietro di noi il mio “fratello adottivo” Ivar che allora aveva 18 anni e mi tiene per le spalle. Quindi mi sono ritrovata con più di una mamma, anche avendo perduto la mamma biologica, ma Lenuccia era un po’ mortificata, perché nei primi tempi io avevo imparato a chiamare papà Carlo, come chiamavo papà Alessandro il mio, ma non dicevo mai mamma nei suoi confronti. Forse, non so cosa scatta nei bambini, forse pensavo che mia mamma non c’era più e non potevano essercene altre al suo posto.
Col tempo Luigina chiamerà mamma anche Lenuccia e ce lo fa capire prendendo una delle foto sparse sul tavolo, un suo ritratto da bambina, con la scritta sul retro “Alla mamma con affetto Luigina 1-12-48”

Tra i due padri nasce un legame forte: Alessandro e Carlo erano comunisti e questo Luigina lo sottolinea, perché – dice – era il filo che univa e dava fiducia a distanza tra la sua famiglia biologica e la famiglia che la ospitava. Lo conferma la lettera del 20 marzo 1946 inviata da Alessandro a Carlo: “Faccio presente che la mamma dei miei bambini e morta gia da un anno, percio oggi sentire che i miei figli si trovano in casa di brava gente e specie in casa di comunisti mi sento sollevato.”

I miei due papà si scambiavano spesso lettere, scritte in un linguaggio molto semplice, perché nessuno dei due era acculturato, però con una volontà e una capacità di spiegarsi, esprimere i propri sentimenti. Qui da Imperia papà Carlo chiedeva con tatto a papà Alessandro se fosse disposto a lasciarmi qui, e papà Alessandro rispondeva “ci devo pensare”. Come nella lettera di del 20 marzo 1946: “In quanto alla vostra proposta riguardo alla bambina se vogli lasciarla per sempre per ora non posso decidere vediamo in appresso cosa deciderà la situazione”. E nella lettera del 15 luglio 1946 Alessandro sollecita il ritorno a casa dei suoi figli: “In più desideri sapere se il comitato promotore vi ha dato qualche notizia in merito al ritorno di questi bimbi. Siccome nulla più mi avete detto per la sua detenzione presso la vostra famiglia. Cosi spero che non mancherete a darmi notizie in merito.”

(fonte ImperiaPost.it)

Quindi in quegli anni, loro, i miei due papà, hanno continuato a scriversi. Comunque il mio distacco aumentava, tanto che nelle poche visite fatte nel Lazio, con il passare degli anni, mi sentivo sempre più “estranea” rispetto all’ambiente in cui ero nata.

Alessandro Borgia nelle sue lettere aveva spesso sollecitato, insistendo, queste visite, come scrive nella lettera del 18 febbraio 1947: “Ti fa sapere che le mie figlie dichino sempre come starà Luigina ma io ci dico sempre che Luigina si ni freca di noi sta proprio bene ma però loro dichino che la volarebbero rivedere guarda unpò si potesse fare il possibbile come mantasti addire all’altra lettera intietro che se avevi il possibile ci la saresti fatta vedere eppoi a ritornassine a su con voialtri perciò vedi unpò come poi fare.”

La prima volta che tornai al paese fu “importante”, per le persone che mi accompagnarono in treno fino a Roma. Uno era Alessandro Natta, che era al suo primo mandato parlamentare da deputato. Mio papà adottivo Carlo era amico e compagno di Natta e gli aveva chiesto se fosse possibile per lui accompagnarmi giù al paese. L’altra si chiamava Minella. Fu nel 1949 e lo ricordo bene, avevo otto anni e mezzo.
Angiola Minella, torinese, nel 1944 aveva aderito alla Resistenza, prima in un gruppo badogliano del Cuneese, e in seguito nelle brigate Garibaldi che operavano nel Savonese, col nome di battaglia Lola. Nel 1947 insieme a Nadia Spano organizzò l’ospitalità di 50 bambini napoletani nel savonese e poi, con Nadia Spano e Ferdinando Terranova, sarà autrice nel 1980 del libro inchiesta “Cari bambini vi aspettiamo con gioia…”, Teti editore).

Arrivata lì, al paese, credo di non aver resistito neanche una settimana. Dopo alcuni giorni piangevo sempre e non mi ritrovavo con la mia comunità di origine. Mio padre ha scritto qui e mio fratello adottivo Ivar è venuto subito giù con treno e pulmann per riportarmi a Imperia. Io ero felice di tornare a Imperia, anche se le mie sorelle e mio padre erano naturalmente molto mortificati. Però da un lato mortificati, dall’altro rasserenati perché hanno pensato che qui c’era una vera famiglia. Ma io volevo bene da una parte e dall’altra, non mi sono mai sentita abbandonata e nel luogo in cui sono arrivata mi sono sentita a casa mia, qui era la mia famiglia e il mio cuore era qui. Quando da bambina uscivamo a Oneglia con la mamma Nuccia, incontravamo persone che lei conosceva, loro mi guardavano e dicevano “Ah, questa è la bambina di Cassino”. Questa frase non la sopportavo, feriva la mia sensibilità, perché io mi sentivo figlia loro, mi sentivo Aliprandi. Non volevo essere compatita. Quello che conta è il calore, l’affetto, la commiserazione non aiuta nessuno, ogni persona conta per quello che esprime, per i sentimenti che ha, non per la sua provenienza.

Nelle lettere che giungevano a Imperia, alle parole di papà Alessandro si aggiungevano sempre quelle delle sorelle, come nella lettera del 18 febbraio 1947:
“Cara Sorellina e siamo le tue Sorelline Giulia Nazarena e Maria e di più Almanto [Armando, il quale dopo un anno a Imperia era definitivamente tornato al paese] di scriviamo questa due riche per darti le nostre nodizie che noi stiamo bene di salute e cosi speriamo anche di te che goti ottima salute ma però noi stiamo sempre appenzare a te e dicimo come starà Luigina ma speriamo che stai bene e goti ottima salute e ti prechiamo di stare allecra e contenta e farti buona con Papà e Mamma speriamo che ti vogliono bene molto assai di noi cosi ricevi tanti saluti e forti bacioni di tutte le tue Sorelle.”

Papà Alessandro continuò a rimuginare, sempre titubante, per mesi. Solo dopo molto tempo riuscì a concedere il suo consenso. C’è una sua lettera commovente in cui lui dice “Mi dispiace, sento la mancanza della piccola, però se penso che da voi a Imperia avrà migliori opportunità di vita per crescere, che qui a Paliano nella sua famiglia non potrebbe avere, bene, ve la lascio, ma voglio rimanere sempre in contatto”. Certo, poi negli anni ho raggiunto anche un equilibrio dal punto di vista affettivo continuando a mantenere i contatti con la comunità nel Lazio e quando ho imparato a scrivere ho cominciato io a scrivere a papà, fino a quando lui è mancato nel 1993.

Così papà Alessandro le rispondeva il 17 aprile 1953:
Carissima figlia Luigina con unpò di giorni di ritardo ti venco arrispondere alla tua amatissima lettera avemo restati molto contenti nel sentire le tue buone nodizie che goti perfetta salute e cosi per adesso puoi stare tranquilla anche di mè tuo papà e tue sorelle ed Almando stiamo quasi di non peggio Cara figlia la tua altra lettera la sono ricevuta con la tua fotografia mi scusirai se non ti o risposto il motivo e stato a non rispondere e stato in quel momento che o ricevuta la tua lettera mi sentivo male o stato quasi 25 giorni senza poter lavorare nella campagna e cosi mi sono trovato anche intietro a fare i lavori ma che voi fare abbisogna pigliare il monto come viene cosa fa il tempo a Oneglia qua da noi sono quasi 2 mesi che non piove più come ti dico che ci va male anche la raccolta dei generi adesso sono unpò di giorni che a campiato unpò il tenpo anno venute piccole acquarelle speriamo che giorno per giorno ci contenterà a piovere […]
Cara figliola mi ai detto nelle lettere che mi ai scritte se la tua sorella Zena era sposata con Vittorio quello di Roma ti fo sapere che la tua sorella Zena è sposata si ma però non si è preso Vittorio quello di Roma si è preso il fitanzato Vecchio quello che ci a fatto lamore per prima circa 7, 8 Anni si e preso un Contatino che lavora la terra non sta mica tanto bene e adesso sta insieme con la sua Socera e ti fo sapere che è sposata anche l’altra tua sorella Maria e anche si e preso un contadino che lavora la terra.”

Man mano che andavo avanti negli studi cresceva in me l’interesse per il mondo dell’educazione. Da diplomata avevo anche trovato un lavoro presso una famiglia, come istitutrice dei loro figli. Avevo 18 anni e mezzo. Provai anche un lavoro come impiegata in un’azienda locale, ma capii ben presto che la routine delle mansioni d’ufficio, sempre in mezzo alle “scartoffie”, non faceva proprio per me. Così, pur continuando a lavorare, m’impegnai a fondo per superare il concorso magistrale. Mi ripetevo che dovevo riuscirci a tutti i costi. Sentivo che quella era la mia strada e raggiunsi l’obbiettivo. Per le femmine non era scontato che si studiasse arrivando fino al diploma.
Chi ci ha tenuto maggiormente alla scuola è stata certamente mamma Angelina che diceva sempre ‘meglio lo studio che un vestito nuovo!’. La mia riuscita era dovuta sicuramente al mio orgoglio personale, ma anche perché sentivo di dover dare una certa riconoscenza a loro che affrontavano sacrifici per me. Poi il mio desiderio più forte era quello di diventare insegnante e, dopo l’esperienza del tirocinio nelle elementari, nel 1964 sono entrata di ruolo. Come prima sede ebbi Carpasio, nella Vallata Argentina, poi altri paesi dell’entroterra, Ranzo, Taggia, Coldirodi. Per me rappresentava la conquista del mondo, l’orgoglio di sentirmi realizzata a soli 23 anni. Insegnare, in quegli anni, era una meta, per noi ragazze era una conquista personale in cui ci si sentiva utili alla famiglia. Per me era anche altro: sentivo di restituire qualcosa di quello che gli Aliprandi mi avevano dato, come benessere, autonomia, e di lì è nata la mia carriera scolastica. Poi nel ’68 ho fatto un altro concorso [mostra un quadretto in cui conserva il ritaglio di giornale con i vincitori del concorso magistrale] e sono arrivata prima in graduatoria: ero titolare a Imperia. Insegnai nella frazione di Oliveto per due anni, ebbi il trasferimento in città, a Castelvecchio, dove sono rimasta per tutta la mia carriera scolastica, 32 anni.

Con una collega in particolare, Franca Natta [figlia di Alessandro, dirigente nazionale e deputato Pci, ndr], ho condiviso un lungo percorso di vita, dagli anni degli studi magistrali fino all’insegnamento e all’attività sindacale. Nel ’78 aprimmo le nostre classi a nuove forme di collaborazione da parte di esperti esterni e di genitori disponibili a offrire il loro sapere e le loro competenze. Attuammo nello stesso periodo, lei a Oneglia e io a Castelvecchio, un progetto sperimentale innovativo dal punto di vista metodologico: si fondava sulla ricerca e richiedeva l’uso di molteplici fonti di documentazione a disposizione di tutta la classe, non il tradizionale libro di testo uguale per ogni alunno. Nel 1982 m’impegnai molto per introdurre nel mio quartiere il tempo pieno, convinta della valenza di un corso di studi più vario e completo, attuato con ritmi più dilatati e distesi e con l’apporto di più insegnanti in una stessa classe. Superate le iniziali ritrosie di molti genitori e di alcune colleghe verso un’innovazione ritenuta allora piuttosto forte, l’avventura via via ebbe successo.Poi, a partire dalla mia iscrizione alla CGIL Scuola, nel ’71, mi sono dedicata costantemente anche al lavoro sindacale. La scelta di aderire e di partecipare attivamente, resa possibile dal prezioso aiuto che ricevevo in famiglia da parte di mia madre, è maturata per un consapevole senso di appartenenza alla mia categoria e, quindi, per la volontà di incidere, in qualche misura, sulle decisioni che la riguardavano.

E poi ancora l’impegno politico, che forse mi è stato trasmesso da papà Carlo. Fin da bambina mi piaceva ascoltarlo raccontare i fatti legati alla Resistenza e le tante volte in cui aveva rischiato di essere catturato dai fascisti. Ma credo sia stato proprio il suo stesso esempio di vita, più che le parole, a influenzarmi. Diventavo adulta e vedevo la società, il mondo del lavoro, gli eventi più rilevanti, sempre più “da sinistra”, che per me significa essere ispirati da un senso di giustizia sociale e solidarietà. Conoscevo l’onestà e la correttezza alla base dei suoi rapporti con i lavoratori della “Cooperativa falegnami”, di cui era stato nel dopoguerra uno dei soci fondatori e presidente. Da lui ho imparato a pensare in modo critico e autonomo e a contare sulle mie forze per raggiungere gli obiettivi che mi ponevo. Ricordo che già durante la mia infanzia, quando talvolta mi perdevo d’animo di fronte a qualche difficoltà, lui mi diceva: “Guarda che ‘non ci riesco’ non esiste… Dipende solo da te!” e penso che la famiglia in cui sono vissuta abbia esercitato una notevole influenza nella nascita delle mie forti convinzioni politiche.
La sua eredità ideale, etica, politica mi è rimasta, perché ascoltavo sempre i suoi racconti, senza forzature, perché lui non ha mai voluto fare “scuola”, mi ha sempre lasciata libera. Ma con lui si è costruita un’affinità anche di idee, e anche il coraggio di affermarle. Allora piano piano ho cominciato a far parte della circoscrizione, nel 1990, come consigliere eletto nelle liste del Pci e nel ’95, terminato il primo mandato, mi sono presentata nella lista del Pds diventando consigliere comunale per quattro anni. Dalla pensione, nel 1996 in poi, per 13 anni ho fatto volontariato presso il Centro Disabili di Imperia.

Con la famiglia di origine i rapporti non si sono mai interrotti. Ancora adesso, con la mia sorella più grande di sette anni e con quella più vicina per età ci scambiamo telefonate. Però verso la famiglia adottiva, ma vera nel cuore, nutro un forte senso di gratitudine. Senza tante parole, come era nella nostra abitudine, però non erano neanche necessarie le parole. Io ho sempre detto “Sono cresciuta in Liguria, in una famiglia ligure” e ho acquisito nel bene, e un pochettino nel male, le caratteristiche liguri: cioè, non chiusa del tutto, ma per quanto riguarda le mie sensazioni, i miei sentimenti, un po’di rigore ligure c’è [ride]. Mi sono decisa a parlare di me stessa forse perché ho 80 anni.

Fonti
Per raccontare la storia di Luigia Borgia è stata fondamentale la collaborazione “sul campo” di Mauro Manuello, attivista di Cittadinanza Attiva che, visitando l‘Istituto Storico della Resistenza di Imperia, è riuscito a ritrovare (fornendomi copia integrale) tutti i documenti relativi ai bambini, circa 100, ospitati dalle famiglie imperiesi, riuscendo poi ad arrivare a Luigia Borgia. 
La ricerca a Imperia, condotta a distanza insieme a Mauro Manuello è durata quattro anni, dal dicembre 2018 al dicembre 2021.
Le informazioni alla base del mio racconto provengono da diverse fonti: 
i materiali cartacei raccolti da Mauro Manuello (documenti e lettere del Pci e del Comitato Imperiese “Salviamo i bimbi di Cassino”, le lettere inviate a Luigia dal padre, le fotografie familiari); 
la videocall con Mauro Manuello del 19 novembre 2020; 
la telefonata con Luigia Borgia del 23 gennaio 2021; 
la videointervista a Luigia Borgia, a cura di Mauro Manuello e Renato Donati, sulla scaletta di domande da me inviate, del 5 giugno 2021; 
la registrazione dell’incontro pubblico organizzato da CittadinanzaAttiva e Gruppo Teatrale “L’Attrito” al Centro “La Talpa” di Imperia con Mauro Manuello e Luigia Borgia, del 4 dicembre 2021; 
il libro di Valeria Lucenti e Antonella Sanzo, Il tempo delle donne (24 donne DS raccontano se stesse), Centro Editoriale Imperiese, Imperia 1999 (l’intervista a Luigia Borgia è firmata V.L. per Valeria Lucenti, figlia di Luigia e coautrice del libro); 
l’articolo del 3 gennaio 2022 di Gaia Ammirati su ImperiaPost.it, in particolare le due videointerviste a Luigia Borgia Lucenti e Mauro Manuello (link: https://www.imperiapost.it/538301/arrivai-a-imperia-sui-treni-della-felicita-nel-1946-avevo-5-anni-la-storia-di-luigina-borgia)