Tag

, , , , , , , , , , , , , ,

La storia di Vincenzo.
Parte seconda. Da Pozzuoli a Sinalunga e ritorno.  (leggi la parte 1)
di Giovanni Rinaldi

Vincenzo Maione, nel suo negozio “Casa del pantalone. Dal 1947”, Pozzuoli 17 maggio 2018 (ph. G. Rinaldi)

1947 Pozzuoli

Mi ricordo quell’anno, il 1947, come un inferno.
Non era povertà, era sofferenza, sofferenza proprio.
Mia madre vendeva, su una bancarella, per strada gli stracci, tessuti e vestiti usati dei prigionieri degli inglesi (degli americani). Roba sporca, piena di pulci. Dovevamo pulirla, lavarla, strofinarla, per riuscire a venderla a quelli meno poveri di noi.
Io avevo 9 anni. Lavoravo dalla mattina alla sera. Sempre a piedi, dovunque, fino a Napoli, andavo a prendere questi stracci, pezze, vestiti usati, e li portavo a mia madre a Pozzuoli. Poi trasportavo anche la frutta. Grandi ceste pesanti che tenevo in equilibrio sulla testa. Dopo un po’ di tempo, sulla testa, i capelli cominciarono a cadere per lo sfregamento della cesta e rimasi col cocuzzolo pelato.
Non ricordo cosa mangiavo, né mi ricordo qualcosa legato al mangiare, né un tavolo intorno a cui stare. Non ricordo niente proprio, non so cosa mangiavo. Come il nulla, né che mia madre mi chiamasse e mi facesse tornare a casa per un pranzo o altro. Niente.
La casa, quale casa? Era una camera sporca, a pianterreno, non ricordo nemmeno come ci dormivo, se sul fieno o su uno straccio buttato a terra. Non c’erano letti, non era una casa.
Mio padre non c’era, mia madre viveva sola, e si mise con un uomo che divenne il mio patrigno.
Era violento, non ci sopportavamo, lui non ne voleva sapere di me.
Non ricordo gesti di affetto o parole buone, mia madre mi diceva solo cosa dovevo fare e io lo facevo, obbedivo. Facevo chilometri a piedi per portare stracci dai capannoni di Napoli fino ai venditori di Pozzuoli o, in bilico sulla testa, pesanti ceste di frutta.
Non ricordo quegli anni come la mia infanzia, io non ho avuto un’infanzia. A otto anni ero già un uomo al lavoro, senza nessun altro pensiero. Non conoscevo altri bambini, non ci giocavo insieme. Gli altri bambini della mia età, ma senza lavoro, stavano anche loro per strada dalla mattina alla sera, forse stavano peggio di me, perché facevano cose peggiori o erano in mano a persone cattive e finivano male. Non giocavo mai con altri bambini, non c’erano occasioni nemmeno per parlarci.
Mi ricordo, di quel periodo, solo oscurità, sporcizia, fatica. Non sento di essere stato bambino, sono sempre stato un uomo, sempre al lavoro.

Bambini sui treni in partenza da Napoli. 1947

Sul treno verso il nord

Poi, un giorno, si venne a sapere che quelli del partito comunista offrivano ai più poveri l’occasione di mandare, per alcuni mesi o un anno, i loro bambini più piccoli o i più deboli, in alt’Italia, per essere ospitati e accuditi da famiglie che stavano meglio di noi.
Fui tra quelli ‘scelti’ per partire. Erano i primi giorni di febbraio, del 1947. Ci portarono prima al Loreto Mare (l’Ospedale S. Maria) e ci visitarono i medici. Lì affacciata a una finestra riconobbi una infermiera, perché era di Pozzuoli. Eravamo migliaia di bambini, sporchi, senza vestiti. Faceva freddo. Poi ci portarono alla stazione e riempimmo, in migliaia, un intero treno. Dentro eravamo stretti e io non pensavo a niente, non ricordo come ero vestito o se ero vestito, non ricordo di aver detto una parola con nessuno. Ero attaccato al finestrino e guardavo fuori.
Non pensavo a casa, non pensavo a mia madre, né mi dispiaceva partire. Pensavo solo che stavo scappando, che me ne andavo senza sapere se sarebbe stato meglio o peggio. Sentivo solo un grande senso di liberazione, proprio, liberazione.
Il viaggio durò l’intera giornata. Guardando dal finestrino vedevo solo rovine, carri armati capovolti o fusoliere di aereo distrutte. Era tutto distrutto, dovunque passavamo. Ogni tanto il treno si fermava e scendeva un gruppo di bambini.
Siamo arrivati, a sera, in un paese della Toscana. Solo oggi dopo 67 anni, ho scoperto che si chiama Sinalunga. Io sentivo parlare di Siena e pensavo, quando tornai a casa, di essere stato lì.
Scendemmo, solo alcuni, dal treno. Non capivamo né dove eravamo né cosa sarebbe successo lì.
Ricordo solo che si avvicinò una donna, c’era anche un signore – il marito – con lei, e mi dette la mano. Io la seguii. Ci portarono di nuovo in un ospedale e ci visitarono tutti. Poi la signora, si chiamava Maria (cognome Marangoni, di 52 anni) e io poi la chiamavo zia Maria, mi accompagnò nella sua casa poco fuori del paese. Entrammo, mi aprì una porta e disse che quella era la mia cameretta, dove c’erano due letti, uno per il figlio Sergio, di 20 anni e l’altro era per me. L’altra figlia figlia, Silvana, di 27 anni, dormiva in un’altra stanza. Non capivo davvero cos’era un letto, non ne avevo mai visto uno, e mi avvicinai per toccarlo, spingendo giù le dita, che affondavano nel morbido. Era una cosa nuova per me e domandai cosa fosse. Mi disse che era un letto, con un materasso che aveva riempito di piume.
Il marito di Maria Marangoni, Gaetano Bianchi di 59 anni, era ferroviere e lavorava proprio giù alla stazione di Sinalunga, che si vedeva dal lato della casa che si affacciava sulla valle. Li chiamavo zia Maria e zio Gaetano.
Si presero cura di me, come fossi un figlio. Non avendo io vestiti, zia Maria prendeva i pantaloni e le camicie di Sergio, li adattava e ricuciva sulle mie misure e così mi fece un piccolo corredo.
Sergio, all’inizio, forse aveva un po’ di gelosia nei miei confronti, vedendo come mi trattava sua madre, ma poi cambiò e mi considerò come un fratello, ma continuai a chiamarlo zio Sergio, come zia Silvana, sua sorella, che mi coccolava e mi portava a fare delle gite e qualche volta anche al cinema. Si mangiava a tavola, per me fu una novità, si faceva colazione, pranzo, merenda e cena. A merenda, con Sergio, mangiavamo le ciambelle che faceva in casa zia Maria.
Quando non era al lavoro in ferrovia zio Gaetano curava l’orto sotto casa. Io lo accompagnavo sempre e imparavo a riconoscere piante e frutti. Un giorno mi fece assaggiare, crudo, un carciofo. Non sapevo nemmeno cosa fosse e successivamente ho sempre pensato che si dovessero sempre cuocere, ma quel carciofo di zio Gaetano lo ricordo benissimo, così come una pianta di capperi che fuoriusciva da una crepa del muro della casa.
In quei pochi mesi che sono stato a Sinalunga mi iscrissero alla scuola elementare. A Pozzuoli avevo fatto malamente solo le prime due classi e poi lasciai per lavorare. Mi trovai bene con i compagni, nei primi due mesi avevo già imparato a parlare italiano e un po’ toscano, e non ci furono problemi.
Appena arrivato a Sinalunga, i due figli di di zia Maria e zio Gaetano non lavoravano ancora e quindi stavano in casa spesso per tenermi compagnia. Poi qualche mese dopo il mio arrivo, zia Silvana tornò sorridendo a casa, l’avevano assunta in una fabbrica di ferro che riforniva le ferrovie. Poco tempo dopo anche zio Sergio trovò un lavoro presso una fabbrica di tegole. Rimasi in casa solo con la zia Maria, la mattina andavo a scuola e il pomeriggio facevo i compiti o andavo giù nell’orto di zio Gaetano.
Zia Maria e zia Silvana qualche volta mi portavano in campagna o fare delle gite, ne ricordo una in particolare, la domenica in Albis, era aprile, e mi fecero anche delle fotografie. E queste fotografie sono le uniche che ho ritrovato del mio anno a Sinalunga.

In gita nei pressi di Sinalunga con zia Maria (a destra) e sua figlia Silvana.

Il ritorno a Pozzuoli

Passò l’estate e in autunno dovetti ripartire per tornare a Pozzuoli. Zia Maria mi accompagnò in stazione – zio Gaetano non c’era, era al lavoro fuori -, piangevamo, non riuscivamo a staccarci l’una dall’altro. A un certo punto sentii gridare ‘Ciao Vincenzo, buon viaggio!’, era zio Sergio che, dal cassone del camion pieno di tegole che andava a consegnare, mi salutava senza potersi fermare. Il pianto non riuscivamo a frenarlo, non capivo perché dovevo andare via. Prima di salire sul treno zia Maria mi porse una valigia piena di panni e vestitini nuovi, mentre nella mano mi piegava 500 lire.
Ho di nuovo come un buio, di quello che fu il viaggio di ritorno non ricordo niente, nemmeno dell’arrivo alla stazione di Napoli. Un buco.
Arrivai a Napoli, ma non ricordo come ci arrivai, non so se c’era qualcuno ad aspettarmi, non so come tornai a casa. Dal momento del ritorno a casa, in poi, mia madre non mi ha mai chiesto nulla di quello che avevo fatto con la famiglia che mi aveva ospitato. Non mi ha mai domandato come ero stato, se ero stato bene, se mi avessero trattato bene. Niente, non mi domandò mai niente. Ma spesso, negli anni successivi al mio rientro, capivo che zia Maria, da Sinalunga, le scriveva e chiedeva di me. Una volta riuscii a vedere che le aveva mandato una fotografia. A Sinalunga con zia Maria eravamo andati, un giorno, a trovare un artigiano che faceva i cestini intrecciati per contenere i bottiglioni delle damigiane, facevano anche le corde lì, le funi, erano funai. E nella fotografia c’era zia Maria vicino a una grande damigiana, e io le stavo accanto e la abbracciavo. Mia madre ricevette tante lettere da zia Maria. In alcune la zia Maria si offriva di adottarmi, voleva che tornassi a Sinalunga per farmi vivere meglio. Queste cose le so perché ogni tanto mia madre se le lasciava sfuggire, ma queste lettere non sono mai riuscito a leggerle, né la fotografia l’ho mai più vista. Mia madre ha fatto sparire tutto e non ne ha mai più parlato. Non lo faceva perché mi voleva bene, non mi ha mai fatto una carezza. Ma forse… lavorando, ero utile, aveva solo bisogno che rimanessi ad aiutarla con il lavoro.

A 16 anni mi misi in proprio

A 16 anni mi decisi, non ce la facevo più a stare con loro, a subire la presenza del mio patrigno, e andai da una mia zia. Era la sorella di mia madre e prestava soldi ad interesse. Le chiesi 20.000 lire e con quelle, sempre a piedi, andai nei capannoni di Napoli dove si vendevano all’ingrosso i tessuti e i vestiti. Ricordo il capannone di Celentano, era famoso in città. Feci chilometri, sempre a piedi, da Pozzuoli a Napoli e da Napoli a Pozzuoli e diventai in poco tempo un venditore ambulante di abbigliamento. Mi bastarono pochi mesi per restituire il prestito a mia zia (più 4mila lire di interessi) e ogni piccolo guadagno giornaliero lo depositavo all’ufficio postale dove avevo aperto un libretto di risparmio che mi permise in poco tempo di prendere in fitto un vano a pianterreno per vivere da solo. Arrivato a 18 anni, avevo sul libretto i miei primi 4 milioni.
A 22 anni, contrastato dai genitori che non condividevano la scelta della figlia, sposai Rosa Schettini, che insieme ai nostri figli ha avuto la pazienza di ascoltare tante volte questa mia storia, che ripetevo, perché qualcuno capisse la mia ansia e il mio desiderio di ritrovare la famiglia che per un solo anno della mia vita mi ha fatto vivere da bambino.

Vincenzo con una cliente (fine anni ’50)

La lunga ricerca

Mia figlia Laura ha cercato in tutti i modi, per più di dieci anni, di trovare indizi, informazioni, per capire dove fossi stato ospitato, ma avendole parlato solo di Siena e non ricordando il cognome della famiglia che mi aveva ospitato, ogni sforzo sembrava inutile. Per 67 anni della mia vita il desiderio è stato uno solo, andare a trovare i miei due genitori. Sì, sono i miei genitori, sono loro che mi hanno trattato bene, con affetto, vestito, mandato a scuola, fatto giocare. Mi hanno voluto bene, sia pure per un solo anno. Sono stati la mia famiglia. Quando quattro anni fa, dopo aver finalmente rintracciato la famiglia Bianchi – a Sinalunga vive Manuela figlia di Sergio e nipote di Maria e Gaetano – e siamo riusciti a organizzare il viaggio su in Toscana, siamo stati al cimitero e lì ho potuto baciare Maria e Gaetano, Sergio e Silvana. Avrei dovuto ritrovarli quando erano ancora in vita, ma non è mai stato possibile. Vicino alle loro foto ricordo mi hanno scattato le fotografie.
Poi siamo stati a visitare la casa in cui ero stato ospitato. Dall’esterno era la stessa, era rimasta intatta con lo stesso intonaco del 1947. Era così perché un incendio l’aveva devastata all’interno ed è rimasta abbandonata fino a oggi. Manuela ci ha portati dentro, dove era ancora tutto bruciato e distrutto. Camminando ho sentito sotto le scarpe, sul pavimento, un leggero rialzo e sotto le carte e la polvere che si era ammassata, abbiamo trovato un album di fotografie di cui nemmeno Manuela sapeva. Ci siamo messi a un tavolo fuori, sulla veranda che ha preso il posto dell’orto in cui aiutavo zio Gaetano. Lo abbiamo sfogliato e abbiamo trovato tre fotografie dove c’ero io, fotografato con zia Maria e zia Silvana. Erano le fotografie della gita della domenica in Albis. Ho lasciato a Manuela l’album chiedendole solo di darmi le mie tre piccole fotografie, che ora sono qui, a casa, a Pozzuoli.
Oggi vivo più sereno, il ricordo non mi fa più male, Maria, Gaetano, Silvana Sergio e Manuela non sono più lontani e sconosciuti, ma li mantengo vicini a me, fanno parte della mia famiglia.

La prima fotografia di Vincenzo con la ‘zia’ Maria, a Sinalunga.

I treni della felicità (il libro)