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I bambini devono riacquistare la fiducia nella capacità dei grandi di difenderli dalla fame, dal freddo, dalle malattie, dall’ignoranza, dal pericolo di guerra. I bambini chiedono che i grandi sorridano loro con bontà.
Leggete nell’interno una serie di importanti articoli e di inchieste sulle condizioni di vita dell’infanzia italiana”.

Così, le redattrici di “Noi donne” scrivono in copertina anticipando i contenuti del numero in edicola (il n. 5 del 4 febbraio 1951).

Ines Pisoni, nel suo commento di apertura – intitolato “Riguadagnare la fiducia dei bambini” -, scrive:
Giorno dopo giorno, sei anni sono passati dalla fine della guerra: i nostri bimbi, giunti ormai esausti alla soglia dell’adolescenza, ancora non sono guariti dal male che ha infranto la loro fiducia nella possibilità dei “grandi” a proteggerli”. E anticipa, nel suo commento, l’inchiesta sul Delta Padano pubblicata poche pagine più avanti e la nascita di un Comitato di Difesa dei Bimbi del Delta: “Nel Delta Padano, lì dove tutta una popolazione lotta per ottenere condizioni di vita degne di chiamarsi umane, dove a migliaia i bambini muoiono di tracoma, di pellagra, di tubercolosi prima di aver imparato a sorridere, lì si è costituito il Comitato di Difesa dei Bimbi del Delta, nel quale tutte si sono trovate accomunate: le donne dell’UDI, quelle del CIF e dell’Azione Cattolica. Ed anche se più tardi, per un intervento dall’alto, quell’alleanza fu spezzata al vertice, essa continuò a vivere operante attorno alle capanne di canne, ai margini delle paludi, ovunque si lotti e si soffra”.

Nel numero del 5 febbraio 1951, “Noi donne” pubblica – oltre a una inchiesta sull’infanzia abbandonata (“Troppi bimbi nelle strade”) e all’intervento dell’on. Perrotti, Alto Commissario all’Igiene e alla Sanità -, al centro della rivista, su due pagine, il resoconto di una “missione speciale” nelle terre del Delta: “Cinque donne sul Delta… così vi parlano”.
La missione è affidata a un gruppo di cinque scrittrici italiane note e affermate, di diversa estrazione culturale e politica, invitate da “Noi donne” a recarsi, insieme, sulle terre alluvionate del Delta padano. I reportage narrativi, scaturiti dalla missione di due giorni (il 5 e 6 gennaio 1951), saranno pubblicati da ognuna delle autrici sui rispettivi giornali di riferimento o rendendo testimonianza allo stesso “Noi donne”.
Le cinque autrici sono: Paola Masino (per “Noi donne”), Giulia Massari (per “Il Mondo”), Anna Garofalo (per “Il Mattino d’Italia” e la radio), Anna Maria Ortese (per “Oggi”) e Flora Volpini

Sono accompagnate e “scortate” da Dina Berti (la Baldina figlia del grande sindacalista Giuseppe Di Vittorio), dirigente dell’UDI. Il racconto della missione è affidato, dal giornale, a Paola Masino, che aggiunge al suo racconto frammenti delle testimonianze delle altre autrici. Particolarmente intensa la testimonianza di Anna Maria Ortese, letteralmente scioccata dall’esperienza vissuta. Tutte vivranno – sul campo – l’impatto con la miseria più nera, la violenza inaudita perpetrata dalle forze dell’ordine (la famigerata “celere” scelbiana) su lavoratori e lavoratrici inermi, ma assisteranno anche a uno dei tanti episodi di affido temporaneo di bambini disagiati affidati a famiglie accoglienti di altri lavoratori emiliani che li accudiranno per l’inverno.      
Le sei donne, della missione organizzata da “Noi donne”, vedono partire 50 bambini, piccolissima parte di quel gigantesco movimento nazionale che sarà chiamato “i treni della felicità”, che dal 1945 aveva già portato decine di migliaia di bambini a vivere un frammento temporale di vita familiare, serena e spensierata.

Di seguito il reportage di “Noi donne”:

Cinque donne sul Delta…
Scrittrici e giornaliste note, recatesi nel Delta con l’inviata di “Noi Donne”, hanno espresso la loro ribellione e il loro sdegno per lo stato di selvaggio abbandono e di miseria in cui vivono donne, fanciulli, uomini.

di PAOLA MASINO

A Comacchio, Flora Volpini pianse. Era mezzogiorno. Non si vedeva sul piatto panorama lagunare, un solo fumo alzarsi dai tanti camini pustolosi di umido, di sporco, di crepe, di rosicchiature del salmastro.
A Comacchio, paese di quindicimila abitanti, ben pochi mangiano.
Gli uomini disoccupati stavano fermi sulla piazza del paese, senza parlare tra loro, senza muoversi, senza guardare: proprio fermi e basta, nell’inutilità delle loro giornate e dei loro corpi. Le case e i pochi negozi intorno, cadenti, gonfi d’acqua; un cane buttato nel fango in un mucchio d’ossa, e nessun gatto, nessun altro animale.
Le famose anguille sono dei padroni delle valli, il popolo non ne è degno. Per mangiarne bisogna rubarle, per mangiare qualsiasi pesce qui, bisogna rubarlo, perché l’acqua è proprietà privata; ma, nonostante, l’assoluta miseria, questo popolo è onesto, prende il minimo necessario a sostenersi, appena quando non ha più neppure una crosta di polenta o una foglia di cavolo da masticare.

Frammiste agli uomini, spettacolo assai più raro e pauroso a quell’ora in un paese, erano altrettante immote donne. Creature per cui l’età non ha differenze, tutte fisse in un tempo che non è più il loro personale: è una vecchiaia anonima e collettiva, raccolta tra cumuli di desolato squallore. Facce sulle quali né rassegnazione né speranza trovano luogo, ma solo un’attesa stagnante, motosa, senza gioia; proprio come le terre dove questi esseri si muovono in modo ormai automatico per conservare una vita in cui il lavoro pare un miraggio. E miraggio non più della razza umana della quale loro vogliono far parte; bensì d’una altra razza che certo è di bestie feroci se, per ottenervi un posto, bisogna combattere contro la morte, ogni giorno, instancabilmente.

Molte di loro, tuttavia, si erano raccolte davanti alla Camera del Lavoro, dove un autobus era venuto a prendere quaranta bambini tra i più poveri per portarli a vivere nelle case di alcuni coloni agiati del Ferrarese che li hanno richiesti.
Quelle madri non piangevano nello staccarsi dai figli, anzi, con una violenza che solo qui vedemmo (benché la violenza contro tutto e contro tutti sarebbe giustificata in questi luoghi), con una violenza e una passione belluina gridavano che anche i loro bambini dovevano partire, anche i loro bambini avevano freddo e fame, quanto quelli che, più fortunati, erano chiamati a salire sul pullman.
Un piccino, a terra vicino allo sportello dell’autobus, piangeva in silenzio con lacrime grosse sulle ossa del povero volto. Era uno degli eletti ma, poiché era dovuto venire da lontano, con scarpe legate ai piedi da qualche straccio, per fango e palude, aveva fatto tardi; e al suo posto, il numero ottanta, era stato chiamato un altro. Anche l’altro aveva la stessa fame e – incredibile a dirsi – la stessa sete. (Comacchio non ha acqua potabile. Un secchio d’acqua costa dalle dieci alle quindici lire e ben pochi possono comprarla: la ditta che la rifornisce è piena di crediti. I debiti per acqua non pagata assommano a milioni. Questo nel nord d’Italia, dove i miliardari sono numerosi e molti di essi proprietari di queste terre che lasciano imputridire, con le loro popolazioni, nel fango). Quel bambino, dunque, aveva fame, sete, spavento in sé della propria vita, allo stesso modo dell’altro rimasto piangente a terra. E ora, con le piccole mani scrofolose, si aggrappava al sedile del pullman e non voleva rinunciare alla sua fortuna e nessuno aveva cuore di staccarcelo.
Gli urli delle donne erano così acuti che a stento si capiva che cosa dicessero. I bambini rimasti guardavano intensi i partenti che sorridevano, forse per la prima volta nella loro vita, da dietro i vetri dei finestrini. Muti e compresi, muti e pieni di un pensiero difficile come se, nel volto degli altri finalmente vedessero il cielo. Dietro le loro fronti si creavano i paragoni, l’invidia, il senso della propria precarietà, lo sbigottimento per l’arbitraria condanna che li tratteneva in quell’inferno anonimo, blando, inesorabile e scarno che è la loro esistenza da quando sono nati. Bambini che pare si domandino perché sono stati buttati, dal caldo nutriente del ventre materno, sull’orlo di questa tomba. E non giocano.
Non abbiamo visto a Comacchio, né in tutto il Basso Polesine, bambini giocare.

Abbiamo visto, questo sì, bambini assistere a come i carabinieri picchiavano col calcio dei fucili, senza pietà, anzi con ferocia, le loro mamme, le loro sorelle, i loro fratelli grandi e i loro padri, colpevoli unicamente di voler lavorare.
A Lago Santo, quattrocento braccianti, mentre noi passavamo per andare a Molesella a constatare le condizioni di vita di quella popolazione rintanata nei bunker, erano scesi a lavorare campi incolti della Società Bonifica Terre del Ferrarese. Poco prima di noi erano arrivati i tutori dell’ordine comandati da un brigadiere ben pasciuto, già facente parte delle brigate nere. Grande, grosso, ineluttabile, sembra davvero il simbolo di quei proprietari anonimi che detengono qui il potere, e con il potere, contro ogni raziocinio e ogni umanità, hanno in loro arbitrio la vita di trecentomila italiani.
Quei tutori dell’ordine, cominciarono a fracassare le ruote alle poche biciclette di alcuni braccianti, ad ammanettarne altri, a colpire a sangue al viso e al petto le donne, al basso ventre gli uomini.
Dina Berti, inviata di Noi Donne, era scesa di macchina. Stava calma, ma il suo volto tanto sereno e giovane, senza ombre, compatto, come senza ombre e compatto è il sentimento che la fa combattere per tanta gente ancora schiava, s’era fatto piccolo, chiuso e bianchissimo. Solo gli occhi erano rimasti mobilissimi, non perdevano un solo movimento della scena, aggredivano o difendevano a seconda che si posassero su un militare o su un bracciante. Quando vide un soldato tirar fuori una pistola, si fece avanti. Qualcuno prima di lei, prese a lui la mano perché non sparasse.
Giulia Massari, del Mondo, aveva gli occhi cerchiati di rosso, mentre il viso le era diventato come un pugno chiuso. Ogni tanto scrollava le spalle e alzava il capo in un moto di ribellione, e quando un carabiniere le urlò di occuparsi dei fatti suoi, lei si eresse e sibilò una frase, come un aspide. Aveva nel collo movimenti impercettibili e rapidissimi, da animale in agguato. Certo, se avesse potuto, avrebbe morso, e il suo morso sarebbe stato velenoso, così umiliata com’era di doversi sentire umiliata davanti allo spettacolo di quanto può accadere in Italia per opera di italiani.
Più pallida di tutti, ratratta, raccolta in uno sgomento che non aveva più gesto, stava Anna Maria Ortese, del settimanale Oggi.
Certo le grandi dame di Milano e di Venezia, le proprietarie di queste terre che, in loro anonimo nome, si stavano fracassando le spalle di gente che non ha cibo, né vesti, né armi, soltanto perché chiedono di lavorare senza neanche essere retribuiti ma unicamente per far sorgere dal suolo qualche alimento che li sostenti, certo quelle grandi dame in quel momento (erano le tre e mezzo del pomeriggio del cinque gennaio, notte della Befana) correvano di negozio in negozio a cercare chi sa quali succulenti doni da mettere nelle calze dei loro bambini, o chi sa quali ricordini (accendisigari, portasigarette, penne d’oro) da far scivolare in quelle dei loro uomini. Anna Maria Ortese è povera quanto un bracciante, però è dentro di sé, assai più ricca di tutte quelle aurate dame, e, viavia che andava guardando, si piegava su se stessa con un moto di dolore, quasi non sul corpo di quei miseri piovessero i colpi del calcio dei fucili, ma sul suo cuore. Le mani livide le tremavano mentre si stringeva nel cappotto ancora tutto incrostato del fango del Basso Polesine; e tenne le labbra serrate finché non scoppiò, in faccia al brigadiere che urlava al vento anche lui, di quello che avrebbero scritto i giornalisti, se ne fregava:
– Di che cosa ha paura? Se sono i vostri giornali!
Più tardi ci ritrovammo sole, noi cinque.
Flora Volpini aveva il volto e gli occhi gonfi, con ombre scure, segnato, e ripeteva:
– Io non posso vedere queste cose io non posso vedere queste cose – con un tono desolato, infantile, quasi implorasse una mamma crudele di non batterla più.
Anna Garofalo disse:
– Ho vergogna, ho vergogna e rimorso, come se fossi io personalmente e sola, responsabile di un simile obbrobrio.
Giulia Massari taceva, tuttavia da due giorni, quando avevamo iniziato il viaggio traverso il Delta Padano, il suo piccolo viso tanto acuto e gentile s’era mutato: ora sembrava una giovinetta cui si riveli una cosa indecente ch’ella dovrà subire senza potervisi ribellare.
Pareva l’avessero schiaffeggiata, con le guance qua e là maculate d’un rosso violaceo e d’un pallore verdastro. V’era in lei un’ostinazione di silenzio che rivelava un urlo di rivolta. Continuò a tacere.
Io avevo male alle tempie. Mi passavo, monotona, una mano sulla testa: i capelli mi si alzavano e annodavano sul capo, mi battevano sulla fronte. Intorno a noi non c’era vento; dentro me uno sconsolato furore che mi scoteva tutta. Flora disse:
– Ti si vede la morte in faccia.
Dina Berti s’era d’improvviso fatta più premurosa con noi, soccorrevole, lei che già tante volte aveva assistito a questi turpi spettacoli. La sua fermezza è fatta di conoscenza, e intuiva le reazioni, e offriva le parole che a ognuna di noi, secondo il nostro temperamento, occorrevano in quel punto.
Anna Maria Ortese le disse: – Ti sono grata di avermi portato qui. Ora capisco tante cose.
E fu come se avesse parlato per tutte noi.

(Cinque donne sul Delta…) …così vi parlano

Ed ecco quanto ha scritto a Noi Donne ANNA MARIA ORTESE:               
Alcuni di noi vorrebbero cambiare i due giorni trascorsi nel Delta Padano, con i più belli di una vita: quelli che si sono avuti, e quelli che ciascuno attende. Perché vi sono commozioni e speranze limitate solamente alla nostra carne, ed altre che riguardano il mondo, e perciò sono immense. Andare laggiù, scoprire nel fango che copre 200.000 ettari di terra, uomini, donne e bambini che la miseria ha deformati e avviliti, e intendere che essi tutti facevano parte di noi, erano dei “noi stessi”, che avevamo abbandonati, è stato ritrovare la parte migliore di noi, pietà e forza che ci avevano lasciati.          
Ci pare che non potremo mai più dimenticare certe creature: la giovane donna dal corpo rimasto chiuso in forme infantili, e il viso essiccato, senile, che correva con gli altri bambini nel fango; il bracciante appoggiato allo sportello della nostra macchina, intimidito, esitante, davanti al quale avremmo voluto levarci in piedi, abbassando le mani; l’uomo disteso in una capanna di Comacchio, fra mille orrendi rottami, gli occhi socchiusi, senza speranza di aiuto; i contadini che camminavano nella sera, come ombre di animali, sotto il cielo pesante; quelli che vennero avanti, per una via di campagna, e su cui vedemmo abbattersi il calcio di un fucile, e una donna cadde, e altre gridavano.

Quell’infanzia, quella gioventù isolate, mortificate, represse, confinate in un deserto di fango della nostra indifferenza – mentre noi scrivevamo dei libri o passeggiavamo in viali magnifici, o entravamo in sale ben riscaldate – ora hanno cacciato pace dal nostro cuore, ogni altra speranza di bene, che non sia il loro bene, ogni ambizione che non si identifichi col raggiungimento della loro dignità civile.
Non potremo avere più pace, finché sapremo ch’essi tremano di freddo o paura; né leggere dei libri, né fantasticare, né guardare una vetrina, o una campagna rosata dalla primavera, finché non li sapremo redenti dalla loro condizione servile, e non ci mostreranno le loro case, le loro scuole, i campi bonificati, le industrie fiorenti, e non li sapremo signori di tutte queste cose, e non vedremo sui loro volti accendersi la giovinezza, ridere la gioia.
Da oggi in poi, non vogliamo più pensare che a loro. Cammineremo col cuore chiuso ad ogni altro interesse, curiosità, amore. Non desideriamo che la loro salvezza, la loro dignità. E con esse, la salvezza e la dignità di tutti gli uomini, le donne, i bambini che sono sulla terra, e che finora ci hanno serviti, e milioni dei quali sono invecchiati precocemente, e sono morti nel buio, e non c’è più traccia del loro nome. Noi vogliamo rendere gloria a tutti i loro nomi, cancellare la terra e le lagrime che abbiamo lasciato aggrumare sui loro volti, scoprire sotto quella terra e quelle lagrime il volto stesso della divinità.
Non avremo per lungo tempo altro Dio.
Roma, gennaio.

FLORA VOLPINI ha dichiarato a Noi Donne:
La visita nelle zone del Delta Padano, mi ha lasciato un’impressione così forte, che, per quanto io faccia, non riesco a distogliermene. Ovunque ho visto squallore, desolazione, fango, bambini coperti di stracci; donne nel cui volto la giovinezza è passata senza fermarsi; uomini forti, avviliti dall’inerzia e dal fango, ridotti alla miseria, alla fame e a dormire ammassati in capanne umide, buie, senza piancito.
In quelle condizioni, chiunque si lascerebbe andare allo stato animale; invece in quelle capanne, si reagisce con l’ingegnosità, con l’ordine; ogni cosa è al suo posto. “Pulizia” sembra la parola di consegna per resistere fino a quando il fango sarà mutato in buona terra per dare a ognuno il suo pane quotidiano.
A Comacchio invece ho avuto l’impressione di una miseria stabile, stagnante, senza speranza. La gente pare arrivata al limite della sopportazione! Si sente nell’aria.
Raccontando alle mie amiche quello che ho visto, mi è venuto da dire: Invece della Valle Padana, ho visitato la Valle dell’Inferno! Non so quali colpe debba scontare quella gente, per essere condannata a vivere in quella maniera.

Sul settimanale Il Mondo, in data 27 gennaio, la scrittrice GIULIA MASSARI racconta le sue impressioni sul Delta con lo stile intelligente e colorito che le è particolare e scrive fra l’altro:
“I disoccupati, i poveri, guardano alle valli da pesca, che sono le piaghe del territorio. Sono cunette con settanta, ottanta centimetri d’acqua, in cui si alleva pesce pregiato, anguille, cefali, branzini; l’utile che se ne ricava è facile e immediato, e chi lo possiede, o le sfrutta, si rifiuta di rinunciarvi. E anche se si bonificassero, si obietta, quale ne sarebbe l’utile? E viene citato il caso della Valle Mea, cui sono stati tagliati gli argini due volte, per una decina di metri, e l’acqua ha invaso una cinquantina di ettari: è stato un errore, si dice, perché di questa valle il Montanari afferma soltanto che si potrebbe bonificare, ma occorrerebbe del tempo. Quel tempo che non può più ispirare fiducia alle popolazioni del Delta: quel tempo che è stato sempre benevolo soltanto ai proprietari, che ha provocato nuove leggi in loro favore, o usi che sono diventate leggi, o abitudini”.

Ed ecco ciò che scrive sul Mattino d’Italia del 24 gennaio ANNA GAROFALO dopo la visita ai tuguri del Delta Padano:
“La sera, al letto, nell’unica stanza, si è in molti: uomini e donne, giovani e vecchi, fino a sedici, diciotto, in un solo ambiente. Nemmeno a letto si riesce a riscaldarsi, perché le lenzuola, le coperte, il materasso, sono bagnati e anche le mura muffiscono, come l’interno dei pozzi. A letto si ricevono calci e gomitate, perché si sta uno sull’altro e non si riesce mai a rivoltarsi. La mattina si è stanchi e ci si sente cattivi. Non si sa più sorridere, non ci si scambia una parola buona. I bambini crescono così”.

(Fonte: “Noi donne”, a. VI, n. 5, 4 febbraio 1951 – Archivio Storico on line)

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NOTA (ndr):
Accanto ad alcune dichiarazioni viene affiancata, nel testo, una breve nota biografica dell’autrice:

PAOLA MASINO, autrice dell’articolo che pubblichiamo, si è fatta conoscere dal nostro pubblico già nel 1928 con una raccolta di prose varie: «Decadenza della morte» seguite da romanzi di grande successo che hanno affermato la sua notorietà di scrittrice: «Monte Ignoso» nel 1931, «Periferia» nel 1933, «Racconto grosso e racconti» nel 1941, «Nascita e morte della massaia» nel 1945 e «Poesie» nel 1946.

ANNA MARIA ORTESE è nata a Roma, ma ha vissuto molti anni a Napoli. Il suo primo libro, «Angelici Dolori, premiato dalla Accademia d’Italia, fu uno dei più grandi successi letterari del ’36. Collaborò in seguito a vari quotidiani e riviste: «Corriere della Sera», «Mattino», «Illustrazione italiana», «Omnibus», e, ultimamente, a «Milano-Sera» e all’«Unità». Esce in questi giorni, Editrice Milano-Sera, il suo secondo libro di racconti: «L’infanzia sepolta».

FLORA VOLPINI, che l’editore Bompiani definisce scrittrice «inaspettata e imprevedibile», ha conosciuto quest’anno uno dei maggiori successi letterari con il suo romanzo «La Fiorentina».

ANNA GAROFALO, autrice del libro «In guerra si muore», che ora la casa editrice Universale Economica ristampa; da sei anni il pubblico l’ascolta nelle sue trasmissioni alla Radio: «Parole di una donna» ed è inoltre collaboratrice del settimanale «Mondo», delle riviste «Ponte» e «Nuova Antologia» e corrispondente da Roma del «Mattino d’Italia».

A questi link puoi leggere di più sulle protagoniste della missione sul Delta Padan:
Paola Masino http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/paola-masino-2/
Anna Maria Ortese http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/anna-maria-ortese/
Flora (Franca) Volpini https://it.wikipedia.org/wiki/Flora_Volpini
Giulia Massari https://www.ilcommentopolitico.net/post/giulia-massari-e-il-mondo-di-pannunzio
Anna Garofalo http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/anna-garofalo/
Dina Berti (Balda “Baldina” Di Vittorio) https://anpi.it/media/uploads/patria/2015/29-30_LEUZZI_n.1-2_2015.pdf

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Leggi anche in questo blog gli altri reportages da “Noi donne” sull’accoglienza familiare dei bambini:
Migliaia di bimbi del nord sono accolti in Emilia (1945, dicembre)
I “bracciantini” (1949, Firenze accoglie i figli dei braccianti emiliani)
1949. 800 bambini campani attraversano l’Italia sul “treno della felicità”
I bimbi del Polesine (1951, 15.000 famiglie offrono ospitalità ai piccoli alluvionati)
Le donne di San Severo (1952, il reportage di Fausta Terni Cialente)
Le donne di San Severo (1952, il reportage di Maria Antonietta Macciocchi)
I ragazzi di Villa Perla (Genova 1954, il racconto di Maria Antonietta Macciocchi)

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Il libro con le storie dei bambini dei “treni della felicità:
Giovanni Rinaldi, C’ero anch’io su quel treno. La vera storia dei bambini che unirono l’Italia, Solferino, 2021