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23 marzo 1950, braccianti, Fausta Terni Cialente, happiness trains, i bambini di San Severo, Luigi Allegato, Noi Donne, PCI, Rita Montagnana, rivolte contadine, San Severo, Scelba, secondo dopoguerra, storia delle donne, UDI
La congiura del silenzio
Dalla nostra inviata speciale FAUSTA TERNI CIALENTE
(“Noi donne”, a. VII, n. 4, 27 gennaio 1952)
Da due anni le donne di S. Severo aspettano in carcere che la giustizia faccia crollare la vergognosa impalcatura di menzogne fasciste, costruita da un’istruttoria tutta basata su false testimonianze. Sono innocenti e la giustizia lo proverà.

Lucera, gennaio
La reazione italiana e la stampa che essa stipendia, ignorano di proposito i fatti di S. Severo e il processo di Lucera, mentre sono fatti grossi e il processo è uno dei più importanti che oggi si svolgono in Italia. Abbiamo visto concedere tanto spazio, ieri, al suicidio o meno di Vincenzina Virando; domani ne vedremo dare anche di più all’omicida contessa Bellentani, ma neanche una riga, oggi, per le coraggiose donne di S. Severo. Eppure queste donne onorano l’Italia. Queste fiere, dignitose donne pugliesi sono in carcere da due anni, separate dalle famiglie, dai figli e il carcere lo soffrono per colpa di una delle più mostruose montature poliziesche che la nostra cronaca abbia mai registrato; montatura che sarebbe concepibile nella Spagna di Franco e in qualche altro paese a dittatura fascista, ma non dovrebbe essere possibile in un paese come il nostro, dove ieri ancora ci si batteva per la Liberazione, contro fascisti e nazisti.
Il processo, condotto dal presidente Merla, sta per l’appunto smontando e gettando a terra, nella vergogna e nel ridicolo, tutta l’ignobile impalcatura fascista; e se nello stesso tempo va riacquistando la sua importanza, un’importanza su scala nazionale, è nel senso inverso a quello che avrebbero voluto le oscure forze che l’hanno messo in piedi.
Per poterne capire tutta la gravità, bisogna rifarsi agli avvenimenti del marzo 1950 che molti forse hanno dimenticato. Il giorno 22, per i fatti di Lentella, ebbe luogo in tutta l’Italia uno sciopero nazionale. A S. Severo la dimostrazione si era svolta e terminata pacificamente, ma era giunta frattanto la notizia dell’operaio ucciso a Parma dalle forze della polizia, e su decisione della Camera del Lavoro locale i lavoratori di S. Severo si preparavano a scioperare anche il giorno seguente. La popolazione era inquieta perché sapeva che il M.S.I., d’accordo con il Commissario di P.S. e col capitano dei carabinieri, organizzava una sua manifestazione per quel giorno, 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci. La sede del M.S.I. rimase aperta tutta la notte. Alle cinque del mattino cominciarono ad arrivare grossi rinforzi di polizia. Nulla giustificava un simile dispiegamento di forze e tutti capirono che dovevano aspettarsi la solita provocazione. Difatti gli arresti cominciarono subito, alla periferia del paese, col pretesto che i lavoratori di San Severo costituivano dei posti di blocco. In seguito a un incidente provocato da tre guardie in una macelleria, la polizia uscì per le strade e cominciò a sparare. Le donne che si trovavano nei locali della Camera del Lavoro vi rimasero assediate e furono arrestate in blocco mentre fuori si continuava, senza alcuna discriminazione, a rastrellare e ad arrestare gli scioperanti.
Ma il più grave avvenne dopo, quando cominciò lo scandalo dell’istruttoria, condotta su testimonianze di elementi tutti dichiaratamente fascisti, appartenenti o simpatizzanti del M.S.I., su deposizioni di individui noti per essere confidenti della polizia, fra cui una prostituta, e venne così architettata la mostruosa falsità per cui da 22 mesi cento e più lavoratori di San Severo – e fra essi 17 donne – aspettano giustizia, colpevoli solo di essere socialisti o comunisti, vittime di un’imputazione che è fra le più gravi: rivolta contro lo Stato e insurrezione armata.
Nell’aula
Le sedute precedenti a questa a cui assisto sono state, mi dicono, altamente drammatiche. «Sembrava che avessero il fuoco sotto i piedi… Saltavano addirittura! (i falsi testimoni). Nelle gabbie si gridava, ai confronti le accuse crollavano, era uno sfacelo»…
Quando entro nell’aula del Tribunale, dopo aver superato uno dopo l’altro sbarramenti di poliziotti e carabinieri, aver avuto le carte visitate e la borsa confiscata, i miei sguardi vanno subito alle gabbie. È una sensazione grossa – non perché sia nuova (è anche nuova) – ma perché fino ad oggi, in gabbia, io ho veduto solamente gli animali, al giardino zoologico. E questi sono uomini, e sono innocenti. Sono gabbie immense, una a destra e l’altra a sinistra. E in ciascuna assiepati, circa 50 uomini, quasi tutti giovani. Hanno l’aspetto pulito e ordinato, sono rasati di fresco, sembrano tranquilli. Alle donne è concesso starne fuori e siedono in fila, appoggiate alla gabbia di sinistra. Con gesti e sorrisi salutano affettuosamente Rita Montagnana [dirigente del Pci, fondatrice dell’UDI e moglie – fino a due anni prima – di Palmiro Togliatti, ndr], il loro viso si è tutto illuminato appena l’hanno vista. Anche gli uomini salutano e sorridono, di tra le sbarre.
Il presidente sta interrogando uno dei testimoni e lo fa su un tono scanzonato. Se non fosse la gravità dell’imputazione che dev’essere demolita – per l’onore e la giustizia d’Italia – e per le nefandezze delle sevizie che questi uomini hanno sopportato in carcere perché confessassero, sembrerebbe una seduta da tribunale comico. Oggi nessuno dei testimoni ha il coraggio di dire che appartiene al M.S.I. Si presentano pavidi, vergognosi e si sente la voce ironica del Presidente congedarli con disprezzo.
– È meglio che te ne vai… (dà del tu a tutti). Bè, ora fammi il piacere, vattene – oppure con un sonoro: arrivederci! Tronca la parola al testimonio e quello se ne va in fretta, a testa bassa. Mi hanno già raccontato che il Presidente si è addirittura imbestialito quando un imputato ha raccontato che, dopo l’arresto, i fascisti si erano vantati con i lavoratori di S. Severo che si sarebbero «coricati» con le loro mogli.
Queste le donne di S. Severo…

Adesso io guardo le donne. Una di esse, in prima fila, che mi è più vicina, ha tolto il mio cappotto dalla spalliera della seggiola, l’ha accuratamente piegato e se lo tiene sulle ginocchia. Saprò dopo che si chiama Rosa Campanaro. È una donna magra, patita, vestita di nero. Le dico: «grazie», da lontano, e mi sorride con semplice bontà. Anche le altre hanno un aspetto accurato e tranquillo, sono vestite bene, quasi tutte, qualcuna più poveramente, ma sempre con civiltà. Seguono attentamente il processo, ogni tanto ridono e scrollano il capo e alle brutte figure degli accusatori – ovvero, affiliati alla polizia – brilla sui loro volti un’onesta soddisfazione. Ma non le posso avvicinare, con esse non potrò parlare. Appena oso un tentativo sorge un immenso carabiniere a impedirmelo. Allora mi faccio dire i nomi, li imparo; molte sono già nonne, hanno i capelli bianchi. Ersilia Buoncristiano è addirittura bisnonna. Glielo chiedo a gesti, se è proprio lei la bisnonna, e lietamente me lo conferma. Quasi tutte hanno bambini e molti sono rimasti a San Severo, affidati a parenti o amici, perché spesso sono imprigionati a Lucera il marito e la moglie, per fortuna la maggior parte di questi bambini godono della solidarietà popolare e sono stati accolti dall’U.D.I. di Parma. Anche il senatore Allegato, seduto in mezzo a noi, ha la moglie fra le imputate, si chiama Soccorsa Sementino. C’è Elvira Suriani, moglie del segretario della Camera del Lavoro, Cannelonga, che è il principale imputato. Era analfabeta, questa coraggiosa Elvira, e in due anni ha imparato a leggere e a scrivere. La Suriani e la Sementino dal 1925 sono all’avanguardia della lotta, quindi è logico che siano state prese di mira dalla polizia. Oramai è chiaro, tutti lo sanno: la polizia si è voluta vendicare delle donne democratiche di San Severo, e infliggendo anche ad esse il colpo di questo ignobile processo sapeva d’infliggere una grave perdita all’organizzazione democratica, al progresso di un paese per cui sono proprio queste donne che hanno fatto di più; e se il processo dura tanto, è che lo si vuol far durare, nella speranza di fiaccare la loro volontà. Ma non hanno fiaccato niente, le donne hanno studiato, invece: chi sapeva poco o nulla ha imparato, chi già sapeva ha continuato ed ha imparato di più. Qualcuno sussurra vicino a me un commento che è una constatazione un po’ amara, un po’ orgogliosa: «il carcere continua ad essere, per i comunisti, la scuola o l’università…».
Arcangela Villani, segretaria dell’U.D.I. e consigliera comunale di S. Severo, è anche fra le carcerate; e vicino a lei siede Isabella Vegliato, una ragazza dall’aspetto energico, con folti capelli rossi che le toccano le spalle e uno sguardo vivacissimo. Ambedue hanno avuto, nei giorni scorsi, confronti drammatici con gli affiliati della polizia: Isabella ha gridato al fascista Vincenzo Tamalio che ricordasse come le aveva offerto di diventare la segretaria del M.S.I. con un buon stipendio, minacciandola di carcere, e come lei gli aveva risposto: – Sarò sempre una comunista.

Malgrado la congiura del silenzio, il processo di Lucera finirà per entrare nell’opinione pubblica, questo processo vergognoso per cui si vorrebbero infamare o mandare all’ergastolo un centinaio di lavoratori italiani. Sulla piazza del Tribunale battuta dal freddo vento di gennaio vedo passare, incolonnate, fra uno stuolo di poliziotti, le diciassette carcerate. Passano calme e dignitose, hanno il viso limpido e sereno. Come tutte le donne del mondo esse hanno certamente i loro affetti, sogni, speranze.
Eppure non hanno esitato un attimo nel rinunciare a tutto, piuttosto che tradire e rinnegare. Con questo loro bel coraggio, questa fede, questa serenità, esse costruiscono l’avvenire, non solo per sé e i loro figli, ma per noi tutti.

(Fonte: “Noi donne”, a. VII, n. 4, 27 gennaio 1952 – Noi Donne Archivio Storico online)
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Leggi anche in questo blog gli altri reportages da “Noi donne” sull’accoglienza familiare dei bambini:
Migliaia di bimbi del nord sono accolti in Emilia (1945, dicembre)
I “bracciantini” (1949, Firenze accoglie i figli dei braccianti emiliani)
1949. 800 bambini campani attraversano l’Italia sul “treno della felicità”
Cinque donne sul Delta… così vi parlano (1951, “in difesa dei bimbi del Delta”)
I bimbi del Polesine (1951, 15.000 famiglie offrono ospitalità ai piccoli alluvionati)
Le donne di San Severo (1952, il reportage di Maria Antonietta Macciocchi)
I ragazzi di Villa Perla (Genova 1954, il racconto di Maria Antonietta Macciocchi)
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Il libro con le storie dei bambini dei “treni della felicità:
Giovanni Rinaldi, C’ero anch’io su quel treno. La vera storia dei bambini che unirono l’Italia, Solferino, 2021
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